Logos e pathos, con classe
di Roberta Pedrotti
Torna a Bologna dopo diciotto anni Alexander Kobrin e chiude la quinta edizione di Pianofortissimo con uno dei concerti più affascinanti della storia della rassegna.
BOLOGNA, 6 luglio 2017 - L’amico pipistrello musicofilo dell’Archiginnasio questa sera non si fa vedere, forse disturbato da una cappa d’afa particolarmente opprimente. Una nuvola di imenotteri ne approfitta per far festa, annerisce quasi completamente il giallo del palco, costringe il pubblico a un continuo mulinar di mani; nondimeno preso d’assalto, il pianista meriterebbe una medaglia già solo per la resistenza stoica. Ma il pianista che chiude in bellezza questa quinta edizione di Pianofortissimo è Alexander Kobrin, e i suoi meriti vanno ben oltre la pur ammirevole capacità di concentrazione e impermeabilità a ogni attacco aereo.
Era stato a Bologna solo una volta, diciotto anni fa, appena maggiorenne e fresco di primo premio al Busoni, poi la sua carriera si è indirizzata con maggior decisione all’estero, ma seguita e riconosciuta più nelle cerchie più curiose e raffinate di appassionati e addetti ai lavori, mentre le grandi case discografiche non hanno mai trovato una grande intesa con il pianista russo, schivo e antidivo, reperibile con buona volontà per lo più fra etichette meno note e rassegne di nicchia. Chi lo cerca, deve inseguirlo, e se capita l’occasione non va persa, constatando dal vivo che quel che si mormora su Alexander Kobrin è la pura verità: si tratta di uno dei più interessanti musicisti in attività, un pianista di primissimo ordine, ben degno di sedere alla tavola dell’Olimpo.
Lo afferma in primo luogo l’intelligenza del programma, in cui l’interprete delinea ed evidenzia con naturalezza e gusto finissimo il filo conduttore. Dall’Andante e variazioni in fa minore Hob. XVII:6 di Haydn si giunge agli Studi sinfonici op. 13 di Schumann passando per la Sonata n.28 in la maggiore op. 101 Beethoven, nella quale Kobrin giostra da maestro la dialettica tematica, cosicché il rapporto fra richiami melodici, armonici, metrici e ritmici emerge magistralmente senza confondersi con la forma codificata di tema e variazioni, ma scoprendo chiarissime affinità, una sottigliezza nel riconoscere legami e linguaggi comuni, un bagaglio di figure di suono che, al pari delle sorelle verbali (rime, consonanze, assonanze, allitterazioni e via elencando), entrano in rapporto e sviluppano una poetica ricchezza di significati. Il fraseggio di Kobrin è così limpido, d’un tempo sciolto e minuzioso, da contemplare una vastissima gamma dinamica senza che l’ascoltatore ne percepisca, in realtà, scarti e contrasti se non come naturali, logici e consequenziali, parti di un ben articolato fluire del discorso.
Il rapporto fra forma e contenuto, fra logos e pathos permea la struttura e l’ispirazione della Sonata beethoveniana così come Kobrin ce la restituisce non meno che le variazioni di Haydn, rese con tutta la virile delicatezza di un artista capace di entrare in simbiosi con un autore senza che la comprensione dello stile si tramuti in esercizio calligrafico, ché nulla v’è di calligrafico in quest’eleganza così abilmente distillata.
Tutte queste qualità, quest’intelligenza e questa sensibilità musicale, trovano, se possibile, un vertice nel grande arco degli Studi sinfonici di Schumann, una sorta di autobiografia interiore intessuta di variazioni, reminiscenze, riflessioni in una scrittura pianistica quantomai profonda. Com’è consuetudine, Kobrin reintegra alcune delle Variazioni postume che Schumann non aveva incluso nelle edizioni a stampa, e, com’è pure uso filologicamente legittimato, le inserisce liberamente: la prima fra il quinto e il sesto studio, la quarta e poi la seconda fra il settimo e l’ottavo, la quinta fra l’undicesimo e il finale. La gradazione dinamica risulta così tanto fluida da tracciare un unico, sinuoso percorso in cui studi e variazioni si susseguono superando la scansione in episodi. Lo sguardo di Kobrin abbraccia l’intero ciclo con acume e arguzia, lasciando affiorare e sfumare il tema originale di Fricken; nel suo accarezzare i tasti con moto agile ed elegante, nella sua gestione morbida e accorta del pedale la materia musicale si dipana compatta, riconoscibile, poetica ed elegante anche e soprattutto per nettezza e varietà d’accenti. Kobrin non è un pianista da effetti speciali, non è appariscente né tantomeno mai fine a sé stesso, ma sa sempre, con preziosa esattezza, far schioccare netto, unico, significativo ogni dettaglio della partitura, ogni colore, ogni legatura, ogni forcella. Tutto si iscrive in un discorso poetico calibrato con cura infinitesimale, limpido e senz’ombra di retorica e calligrafismo. Semmai è la calligrafia con cui si può impreziosire un’edizione manoscritta di Leopardi o Petrarca, non la calligrafia esposta in asettici repertori di caratteri e parole; è la perizia che esalta il testo e non lo sovrasta, che bilancia con saggio sorriso logos e pathos.
Schumann e Debussy i bis, a suggellare la classe superiore di Alexander Kobrin nella soddisfazione generale.
foto Veronica Fornasari