Una Gerusalemme ritrovata
di Stefano Ceccarelli
L’Istituzione Universitaria dei Concerti inizia la stagione con un autentico trionfo: Anna Caterina Antonacci e l’Accademia degli Astrusi diretta da Federico Ferri. Il programma è curatissimo e s’impernia sull’immagine terrena e celeste, perduta e liberata (dacché il mio calembour su ritrovata) della città di Gerusalemme: la Antonacci incanta nel Combattimento di Tancredi e Clorinda e nelle arie dall’Armide di Lully, ma stupisce pure nelle lamentazioni musicate dal Colonna. L’orchestra suona divinamente le parti orchestrali di Corelli e von Biber.
ROMA, 14 ottobre 2017 – Quando un concerto è ben strutturato e eseguito da validissimi interpreti, il piacere è incredibile. È proprio il caso del primo concerto della nuova stagione dell’Istituzione Universitaria dei Concerti della romana Sapienza, che ha visto la sinergia di una cantante del calibro di Anna Caterina Antonacci e dell’Accademia degli Astrusi diretta da Federico Ferri, ma anche la partecipazione del musicologo Francesco Lora che ha ponderato un interessantissimo programma poggiato sul fil rouge delle immagini letterarie, storiche e sacre di Gerusalemme. Molti i compositori chiamati in causa: Corelli, Colonna, von Biber, Monteverdi, Lully. Uno sguardo su due secoli di musica (il 600’ e il ‘700), non certo oggetto, con frequenza, dei programmi da concerto. La formula è affascinante e esaltante, soprattutto per la ponderata chiusura dei due tempi col Monteverdi del Combattimento e l’Armide (antologia di arie) di Lully.
Il primo pezzo è la Sinfonia per l’oratorio Santa Beatrice d’Este di Giovanni Lorenzo Lulier di Arcangelo Corelli, «maestro di stile, di forma e di tecnica strumentale» (come ben scrive F. Piperno nel programma di sala). Si incomincia, dunque, con la Gerusalemme terrena, anzi la nuova Gerusalemme, la storica Roma dei papi e dei ricchi principi che non badavano a spese per costose e raffinate committenze. Com’è il caso dell’oratorio del Lulier, eseguito per i Pamphili (1689), di cui Corelli scrisse la sinfonia d’introduzione. Ferri indulge divinamente nelle fragranze timbriche dei primi due movimenti, indugianti, languidi, per poi ravvivarsi nell’ultimo: gli Astrusi si dimostrano un ensemble di notevole bravura. Si passa, poi, alla Gerusalemme vera, biblica: le Lectiones del bolognese Giovanni Paolo Colonna, sul testo geremiacodella vulgata. Ora assistiamo alla Lectio tertia, una visione delle difficoltà frapposte all’uomo dal Signore: entra la divina Anna Caterina Antonacci e inizia la magia. Il testo latino della terza delle Lamentationes Ieremiae risuona pieno ma sommesso, ecclesiasticamente fisso ma allo stesso tempo attento all’estetica emotiva teatrale: la Antonacci, che ci palesa pieno il raffinatissimo suo lato interpretativo, sa dosare effetti e modulazioni in ottemperanza a questa visione nera e sospesa. Viene il momento della Battalìa à 10 di Heinrich Ignaz Franz von Biber, preludente nell’ethos al successivo Combattimento: si tratta di una geniale composizione per dieci strumenti che evoca musicalmente una battaglia. Gli effetti esperiti da von Biber sono gli stessi di Monteverdi, portati all’estremo: un uso spregiudicato delle dissonanze, a evocare il cozzare delle armi, del guizzare delle semicrome degli archi, sempre alludenti alla violenza degli scontri; senza dimenticare il mesto lamento (la fine della battaglia). Al rientro della Antonacci si dà vita alla magia: il Combattimento di Tancredi e Clorinda di Claudio Monteverdi, di cui probabilmente la Antonacci è la migliore interprete al mondo. Siamo, dunque, nella Gerusalemme letteraria, quella della Liberata del Tasso. Il passo è una delle delizie del poema, un brano di una sensualità tale da tracimare oltre l’imposto dal rigido clima controriformistico, stretto all’erotica fantasia del Tasso. La Antonacci è una fraseggiatrice impareggiabile, per sensibilità come pure per nobiltà d’eloquio. Riesce a eseguire con una pura naturalezza tutte le ardite difficoltà dell’elaborato recitativo, che si stringe in momenti concitati (lo scontro più acceso fra Tancredi e Clorinda) e si allarga nella contemplazione estatica della morte della saracena, che si monda del paganesimo per abbracciare la fede cristiana. Non nego di aver versato più di una lacrima: testimonianza dell’intensità cristallina dell’esecuzione della Antonacci, interprete di rara intelligenza. Gli applausi scattano generosi, esaltati.
Il secondo tempo si apre con il Concerto grosso in do minore op. 6 n. 3 di Corelli: il terzo dal suo opus magnum, dunque. Gli Astrusi ci danno ancora una lezione di musica: l’esecuzione millimetrica, eppur viva e vibrante, densa nel Largo, precisissima nel canone del II movimento. Dopo l’eterea stasi del Grave (III), la concitazione del Vivace sfocia nell’Allegro, matematico eppure così seducente. Entra nuovamente la Antonacci (di cui vorrei lodare anche l’eleganza) per la seconda delle lamentazioni geremiache: Lectio secunda del Colonna, di nuovo in una Gerusalemme biblica, apocalittica nel messaggio contro la vanità delle ricchezze contro l’eternità della vita ultraterrena, che la Antonacci traduce in un posato, espressivo fraseggio, condito di melismi, tutto teso nei colori tonali che descrivono i diversi passaggi. La tragedienne per eccellenza della scena italiana tira ora fuori la sua caratura drammatica, la sua celebre voce piena, turgida, dal timbro cangiante, sensibile al vibrare del carattere del ruolo del titolo dell’Armide di Jean-Baptiste Lully. Inframmezzati da momenti orchestrali (ouverture, entracte e passacaille) si susseguono alcuni momenti nodali della vicenda della maga creata dalla fervida fantasia del Tasso. La prima aria con recitativo («Enfin, il est en ma puissance», II) vede Armida risolversi per una vendetta diversa dall’omicidio: astringerà Rinaldo a una dorata prigionia, lei stessa schiava del bel cristiano. La Antonacci deliba le sfumature cangianti dalla rabbia all’eros con notevole maestria. Un eros che la Antonacci languidamente problematizza in «Ah! Si la liberté me doit être ravie» (III) e nella successiva «Il m’aime? Quel amour! Ma honte s’en augmente» (III), ricche di pathos presago della catastrofe. Le sue doti squisite di tragedienne escono tutte nella fulminea «Venez, venez, Haine implacable» (III), ma soprattutto nella catastrofica «Le perfide Renaud me fuit!» (V), quando le Erinni distruggono il palazzo illusorio. Il pubblico esplode in applausi fragorosi e la Antonacci, con gli Astrusi, si gode il meritato trionfo.