Cantami, o diva
di Francesco Lora
Sono già iniziati i concerti per celebrare il giubileo d’oro di Edita Gruberová: a Berlino, la diva mostra il fianco disarmato con Mozart, Donizetti e Verdi, ma sbalordisce nei bis attinti da Wagner e Johann Strauss.
BERLINO, 29 novembre 2017 – Nel 2018 Edita Gruberová compirà cinquant’anni di carriera in parti protagonistiche, e soprattutto in terra tedesca sono già iniziati i concerti per celebrare il giubileo d’oro. Impegnato ma temerario l’impianto di quello tenuto il 29 novembre alla Deutsche Oper di Berlino, con replica il 4 dicembre: il programma musicale è stato intervallato dai commenti del presentatore Hans-Jürgen Schatz, il quale ha ripercorso la carriera della diva attraverso miracoli biografici, parabole aneddotiche, transustanziazioni sceniche, santi luoghi teatrali di predicazione e agiografie di critica musicale, dirimenti nel processo di canonizzazione. Impianto temerario, si è detto, per il fatto che mezzo secolo di carriera ha via via depositato il segno del tempo sulle risorse artistiche della Gruberová: proprio mentre l’eletto a presiedere la sua chiesa ne esaltava le virtù come fossero perpetue ed eterne, se ne sono in modo paradossale toccati con mano, occhio e orecchio il declino vocale e l’affaticamento fisico.
Dopo l’Ouverture dalla Entführung aus dem Serail di Mozart, dunque, non si ascolta più la virtuosistica aria «Martern aller Arten», che già fu sprezzante cavallo di battaglia del soprano, bensì l’altra faccia musicale del personaggio di Konstanze, ossia la spianata, attonita e svuotata «Traurigkeit ward mir zum Lose». Nel canto la nostra vorrebbe muoversi con tale legato da ignorare la differenza dei registri, come le era possibile in altri anni, ma oggi la linea tende a frangersi e già su un La acuto mostra indebite esitazioni e durezze. Dopo l’Ouverture dal Don Giovanni, ancora, il rondò di Donna Anna, «Crudele! Ah, no, mio bene ... Non mi dir, bell’idol mio», insidia la Gruberová fin dalla lunghissima prima frase. Ella riesce ancora a inarcarla in un solo fiato, ma a costo d’imporre un’improvvisa accelerazione al ragionevole tempo sin lì battuto. Una primadonna integra non presenterebbe poi la seconda pagina di furore d’Elettra dall’Idomeneo, «D’Oreste, d’Aiace», rinunciando alla stesura più estesa del recitativo accompagnato; qui si ascolta invece quella scorciata, indi un’aria intonata ormai con corpo flebile, stanco, vuoto, e con vocalizzi liquidati nell’isteria di risa estranee alle intenzioni del testo musicale.
Di Verdi la Gruberová sceglie La traviata e Violetta Valéry, anche in questo caso preferendo alla sovreccitata aria conclusiva dell’atto I una tirata lirica – assai sforbiciata al proprio interno – tesa dalla romanza «Addio, del passato bei sogni ridenti» alle ultime battute dell’opera. Le fa corteggio un gruppo di giovani: il tenore Matthew Newlin come Alfredo, Markus Brück come Germont, Nicole Haslett come Annina e Andrew Harris come Grenvil; e ciascuno di essi, con mezzi ordinari ma freschi, fa da impietosa cartina al tornasole innanzi a una diva già immensa e ora esausta, affannata persino nella lettura della lettera e nella scorrevole pronunzia dei versi italiani. Alla Sinfonia dal Roberto Devereux di Donizetti, opera prediletta su tutte dalla Gruberová, fa séguito l’ultimo scomparto del programma: il rondò finale di Elisabetta, tutto risolto nella caratterizzazione iperrealistica, grottesca e musicalmente anti-idiomatica del personaggio regale e della relativa civiltà canora, con parole deformate dal compiaciuto birignao e, in fondo alla cabaletta, con una nota che ambisce invano al Re sopracuto. Nessuna cantante ha ammiratori più della Gruberová, e puntuale scatta la plenaria ovazione in piedi. Meritata? No.
E invece sì. Poiché da questo momento il miracolo si compie davvero, e nel canto della diva tornano il timbro, lo smalto, l’involo, la risonanza, il divertimento, l’omogeneità tra registri e la morbidezza di vocalizzazione. Ecco un primo bis, «Mein Herr Marquis» dalla Fledermaus di Johann Strauss iunior, ove la Gruberová intrattiene con l’orchestra del teatro e col direttore Peter Valentovic una tale dialettica comica, nel gioco di colori e rubati, da appalesare per la prima volta la loro complice presenza; quanto alle scalette ascendenti di cinque gradi, basterebbero a mandare in estasi per scioltezza, malizia e vaporosità. Ed ecco anche un secondo spiazzante bis, «Dich, teure Halle» dal Tannhäuser di Wagner, slanciato con una tale purezza, esuberanza, caratterizzazione psicologica e pienezza di suono, da far seriamente credere a un’errata scelta di repertorio là dove il soprano ha preferito le eroine di Donizetti e Bellini. Così in un pellegrinaggio a Berlino, celebrandosi il giubileo d’oro della Gruberová, un Beckmesser è stato messo all’angolo.