Danzare un sogno
di Andrea R. G. Pedrotti
Torna a Monaco di Baviera, dove debuttò quarantasei anni fa con la direzione di Carlos Kleiber, il magnifico allestimento di Der Rosenkavalier firmato da Otto Schenk. Magnifica, nondimeno, la concertazione di Kirill Petrenko, così come la prova di un'ottima compagnia di canto.
MONACO di BAVIERA, 17 marzo 2018 - Era il 20 aprile 1972 quando la produzione firmata da Otto Schenk e Carlos Kleiber fece il suo debutto sul palco della Bayerische Staatsoper, a distanza di sessantuno anni dalla prima esecuzione assoluta a Dresda, con la regia del grande Max Reinhardt. Nel 1911, quando l’opera esordì al Königliches Opernhaus (oggi Semperoper), la cultura mitteleuropea poteva far un bilancio di se stessa e riconoscere un’identità maturata nei due secoli precedenti. In quest’opera sta il vero gusto di un’Europa centrale che ancora sapeva riconoscersi, prima che fosse viziata da quella che fu la politica tedesca degli anni Trenta e Quaranta.
Il libretto di Hugo von Hofmannsthal, viennese di famiglia ebraica proveniente dalla Boemia - parimenti al primo regista Max Reinhardt - e filologo dalla prodigiosa capacità d’apprendimento linguistico, è un capolavoro intraducibile di sfumature lessicali. Egli riproduce l’ambiente della capitale asburgica con dovizia, mediante l’utilizzo di numerosi prestiti linguistici dall’italiano e dal francese (due lingue che le classi agiate del XIX secolo dovevano conoscere), inseriti nei periodi quasi a farli divenire calchi, poiché insostituibilmente concatenati sull’asse paradigmatico della frase.
Una visione avulsa da un’attenta lettura del testo potrebbe far sembrare l’opera prolissa in alcune parti, invece non v’è nulla di superfluo, poiché ogni istante abbraccia la cultura mitteleuropea che Hofmannsthal e Strauss osservavano: il Settecento è un pretesto, un simbolo. Molti potrebbero rimproverare, infatti, al compositore l’utilizzo del walzer, che avrebbe fatto il suo ingresso nei salotti solo negli anni successivi, ma il rilievo sarebbe errato. La cultura mitteleuropea si era sviluppata sul concetto dell’interiorità, del sogno, di un ideale trascendente che, artisticamente, per esempio, si sarebbe riverberato nel romanticismo delle note di Franz Schubert o dei versi di Heinrich Heine.
Vienna era il luogo ideale dove rappresentare questo insieme culturale, poiché ne fu la culla.
L’opera di Strauss è il regno dell’illusione: Octavian è intepretato da una donna, che si traveste da fanciulla per non far scoprire la sua relazione con la principessa di Werdenberg. Noi, come pubblico, ascoltiamo una donna che canta con voce femminile, in abiti femminili e cadiamo vittima del medesimo trompe-l'œil di cui è vittima il barone Ochs. Bisogna ragionare sul fatto che la cameriera sul palcoscenico altro non è che Octavian travestito, ma il rischio di cadere nella catarsi dello straniamento è continua. Tagliare un solo verso del libretto, mutilando la perfetta drammaturgia di Hofmannsthal, sarebbe delittuoso perché distruggerebbe la concatenazione creata dal librettista. Non bisogna aspettarsi un buffo simile a quello latino, francese o italiano, perché questa è una burla mitteleuropa, interiorizzata, malinconica, che fa sorridere, ma anche riflettere. La Marescialla è un personaggio saggio che passa dall’ebbrezza della carnalità alla razionalità del pensiero, attraverso profonda analisi delle fasi della vita e del susseguirsi delle generazioni e delle opportunità di ognuno di noi, esprimendosi con parole intrise di commoventi considerazioni al termine del primo atto. Ha un’evoluzione, come Octavian, che con lei vive i piaceri della trasgressione erotica, ma giunge al romanticismo nell’unione elegiaca con Sophie, pur mantenendo profondo affetto, ricambiato, con l’antica amante.
C’è un motivo se la regia di Otto Schenk ha resistito per tanti anni in un teatro che notoriamente gradisce allestimenti anticonvenzionali: questo non è un allestimento didascalico, ma vive dello stesso spirito che animò Strauss e Hofmannsthal, riproducendo una Vienna a sua volta immaginifica. È pertinente nella ricostruzione degli ambienti che si potevano immaginare nel 1740, all’epoca di Maria Teresa (non a caso lo stesso nome proprio della Marescialla), ma non si riscontra una recitazione cinematografica o pedantemente storica, bensì quasi danzata. Ogni singolo movimento segue la prosodia musicale, persino le tende e i drappeggi paiono animati dalle note di Strauss. Ogni singolo gesto di tutti i personaggi, dai protagonisti, fino ai comprimari, segue la linea orchestrale e la drammaturgia. Persino le luci (in particolare del terzo atto) non si limitano a creare atmosfera, ma danzano con Strauss, facendo vivere un vicenda irreale, metaforica, simbolica, come un sogno, come era l’uomo che Hofmannsthal descriveva in molti versi, non solo di questo lavoro, ma di tutta la sua carriera artistica.
Un’ambientazione d’epoca aiuta nel trompe-l'œil del travestimento di Octavian, poiché stacca visibilmente il carattere degli abiti femminili da quelli maschili (al giorno d’oggi l’abbigliamento è a caratteri più ermafroditi e lo noteremmo meno), inoltre si tratta di un sogno antistorico, ambientato, infatti, in una città che sul sogno fece la sua fortuna scientifica e artistica, quale emblema e cuore pulsante (positivo e negativo) dello spirito della mitteleuropa, annientato e tenuto nascosto dall’indelebile macchia nazionalsocialista, ma che (e questo andrebbe compreso) non lo rappresentava affatto.
Non esiste un elemento migliore nel cast di quest’edizione di Der Rosenkavalier, perché di meglio non non si poteva sperare. Adrianne Pieczonka è Marescialla encomiabile, nobile riflessiva, elegante e regale, dona al fraseggio intensità e linea intensi e raffinati. La recitazione è da dama d’alto lignaggio, mentre la vocalità è precisa e solida in ogni passaggio. Accanto a lei non possiamo che lodare la protagonista Angela Brower che con il suo timbro dalle tinte sopranili accentua lo straniamento del travestimento. È scenicamente abile nel sottolineare l’ambiguità: elegante nel vestirsi da uomo, femminile in abiti da cameriera, ma con una mimica vagamente androgina quando sa di non esser vista dagli altri protagonisti sul palcoscenico. Attrice spigliata e convincente sia nei momenti brillanti, come in quelli elegiaci. Dobbiamo obbligatoriamente ricordare Peter Rose, irresistibile barone Ochs che sale in cattedra nel secondo atto nel sottolineare la tragedia del “graffio” ricevuto nel duello con Octavian. Vocalmente il cantante è ineccepibile, ma è scenicamente che domina il palcoscenico accentrando su di sé l’attenzione, ma senza monopolizzarla, visto il carisma condiviso con tutti i colleghi.
Una lode va riservata anche ad Anna Prohaska, che giunge a sostituire il soprano previsto, colpito da malattia, per la sua interpretazione di Sophie. Il soprano convince, infatti, sia scenicamente sia vocalmente, grazie anche all’intesa con un concertatore che l’aveva già diretta come Adele in Die Fledermaus nello stesso teatro non molto tempo fa.
Tutti al di sopra dell’eccellenza gli altri personaggi: Markus Eiche (Il signore di Faninal), Miranda Keys (la signora Marianne), Ulrich Reß (Valzacchi), Heike Grötzinger (Annina), Peter Lobert (un commissario di polizia), Kevin Conners (un maggiordomo), Manuel Günther (un ospite) Christian Rieger (un notaio), Ivan Unger (un flautista), Elias Loeb (un parrucchiere), Karla Kühn (una nobile vedova), Anna El-Kashem, Nianh O’Sullivan, Alyona Abramowa (tre nobili orfane), Réka Kristóf (una modista), Long Long (un venditore d’animali), Tobian Neumann (Leopold Leiblakai), Jüregen Raml, Gintaras Vysniauskas, Haukur Haraldsson, Michael Skerka (quattro lacchè della marescialla), Felix Fischer (Mohammed) David Jehle (un servo) e Claudia Küster (Pikkolo). Da segnalare il cameo di Lawrence Brownlee (il cantante).
Sul podio della Bayerische Staatsoper è Kirill Petrenko a raccogliere con pieno merito il testimone di Carlos Kleiber: di formazione viennese, coglie perfettamente lo spirito della partitura di Richard Strauss, regalando al pubblico una direzione, intensa tecnicamente ineccepibile, stilisticamente perfetta, ricca di colori, memorabile sia nella dinamica, sia nell’agogica.
Al solito eccellenti tutte le maestranze del massimo teatro bavarese: comparse, coro (diretto da Sören Eckhoff), coro di voci bianche e orchestra.
Per la pate visiva ricordiamo oltre al regista Otto Schenk le scene e i costumi di Jürgen Rose. Lo spettacolo era ripreso da Georgine Balk.
Foto Bayerische Staatsoper