Voci per Don Carlos
di Francesco Lora
Rara ripresa del capolavoro verdiano nella sua versione originale. Allo spettacolo parigino dell’autunno scorso si oppone oggi quello dell’Opéra di Lione, non appieno soddisfacente sul fronte della direzione e della regìa, ma eccellente su quello del canto: Pertusi, Romanovsky, Degout, Scandiuzzi, Matthews e Hubeaux.
LIONE, 17 marzo 2018 – Nel 2017 il Don Carlos di Verdi ha compiuto i suoi primi centocinquant’anni; o, per meglio dire, li ha compiuti la sua versione originale concepita per l’Opéra di Parigi: oltre quattro ore di musica oggi di raro ascolto e assai differenti – per drammaturgia, consistenza e strumentazione – dalle quasi tre della versione oggi rappresentata d’abitudine (vale a dire quella definitiva varata nel 1884 al Teatro alla Scala di Milano, anch’essa composta su versi francesi ma poi sempre circolata in traduzione italiana). Sciocco è il gioco di chi vorrebbe eleggere tra le due versioni – anzi, tra le numerose cui il compositore pose provvisoriamente mano o diede rassegnata autorizzazione – quella da tenere e quella da buttare: la stesura originale è la più ricca di informazioni, mentre la definitiva è la più rifinita e stringente, così che la sola conoscenza di tutti i materiali può rendere ragione del più aperto, complesso e tormentato tra i capolavori verdiani. L’Opéra di Parigi si è ricordata dell’anniversario tondo e lo ha festeggiato, nell’autunno scorso, all’Opéra Bastille, con un ghiottissimo nuovo allestimento della versione parigina, tanto sfarzoso nella locandina (direzione di Jordan, voci di Abdrazakov, Kaufmann, Tézier, Beloselskiy, Yoncheva e Garanča) quanto deludente alla resa dei fatti (una sconclusionata regìa di Warlikowski, una generale atarassia musicale e qualche malanno vocale). Con sette recite effettive dal 17 marzo al 2 aprile (un’ottava, il 22 marzo, è già saltata per sciopero), l’Opéra di Lione ha colto al balzo l’occasione per opporre a quello parigino un proprio Don Carlos, con interpreti scelti in base non tanto all’impatto massmediatico quanto alla giusta aderenza stilistica, e con la promessa di un’esecuzione finalmente integralissima (nella capitale, il balletto è stato tagliato).
Al contrario, tagli alla partitura vi sono stati e della specie più subdola: nascosti finanche dal libretto di sala, che vedeva tacitamente espunte le parti omesse, essi hanno interessato non brani ma sezioni interne, dissestando così nel profondo forme musicali e logica teatrale. Chi scrive ha riconosciuto almeno tre sforbiciate. Gravi. Nel duetto tra Philippe II e Rodrigue sono sparite le battute ove il re insinua sul rapporto tra Don Carlos ed Elisabeth, vale a dire l’asse drammatico dell’intera opera. Nel balletto è sparita la seconda metà delle musiche, sancendo un penoso mozzicone con sviluppo interrotto e senza sintesi finale. Nella sommossa al termine dell’atto IV sono sparite le battute di Eboli: in tal modo, non si comprende chi abbia aizzato la plebe a salvare il protagonista, né l’esito della risolutezza ostentata dalla principessa nell’aria («Ah! Un jour me reste! Ah! Je me sens renaître! | Béni ce jour... Je le sauverai!»; «Un dì mi resta, ah! la speme m’arride, | sia benedetto il ciel! Lo salverò!...»). Domande retoriche su questioni ulteriori: che senso ha tagliare parti specifiche della versione del 1867 in uno spettacolo che ha per principale attrattiva l’adozione di quel raro testo? quale vantaggio deriva dal tagliare dieci minuti di musica sparsa, in una serata di cinque ore e aggravata piuttosto da lunghi cambi-scena? Le questioni andrebbero rimesse al regista, Christophe Honoré, che con lo scenografo Alban Ho Van, la costumista Pascaline Chavanne e la coreografa Ashley Wright firma una lettura teterrima nelle immagini e interessata ai sottotesti, ma che sorvola sulla drammaturgia oggettiva dell’opera (e che opera!). In secondo luogo si dovrebbe interpellare Daniele Rustioni, direttore musicale del teatro e concertatore correttissimo alla guida delle maestranze lionesi; ma può bastare la correttezza a un Don Carlos?
La compagnia di canto fissa invece un modello. Che Michele Pertusi covasse il più forbito Philippe II oggi alle scene, lo si sapeva da un concerto del 2004, documentato in CD, ove si ascoltò il più sfumato degli «Ella giammai m’amò» (inaudito, già lì, il periodo d’esordio svolto in un unico fiato). Basti qui dire che la versione parigina, con parte più estesa e versi più sottili, triplica in lui le occasioni di accendere il personaggio e riversarvi il rigoglio vocale già lodato nella Jérusalem a Parma [leggi la recensione]. Una timidezza elegante distingue il Don Carlos di Sergey Romanovsky, belcantista di razza cresciuto alla scuola di Rossini, da quello che professano i tenori imbolsiti dalla tradizione. Come Rodrigue, Stéphane Degout impone il puntuale rinnovo – trasferito dalla scala barocca a quella verdiana – del panegirico sul recente concerto a Versailles [leggi la recensione]: è il principe dei baritoni francesi. Fatta piazza pulita dei soliti bassi slavi di secondo rango, Roberto Scandiuzzi trabocca di volume e smalto, indi li assottiglia a terribile misura di Grand Inquisiteur. Sally Matthews sorprende: inconsueta è l’evoluzione psicologica della sua Elisabeth, precipitata da principessa compiaciuta (più che sognatrice) a regina triste e donna indurita (ma mai matronale); ed eccellente è il dominio della gravosa tessitura, lungo la quale il canto non perde timbro né risonanza né impeto. Rivelazione confermata per la trentenne Ève-Maud Hubeaux come Eboli: colpiscono le floride risorse naturali, ma anche l’attenzione della musicista (nella “Canzone del velo” si ascolta una cadenza nuova) e l’esuberanza dell’attrice (personaggio rovente dalla sedia a rotelle cui lo costringe la regìa). Aveva già partecipato alla produzione dell’Opéra di Parigi: ma lì – il tempo, gran signore – le era stata data la piccola parte di Thibault.