Gli onesti limiti: Puccini alla Fenice
di Francesco Lora
Ennesima e benvenuta ripresa veneziana della Bohème nel fascinoso spettacolo con regìa di Micheli. Ma la rinuncia di Chung infortunato – e sostituito da Ranzani – ha lasciato spaesati i giovani cantanti.
VENEZIA, 24 marzo 2018 – Un doppio trabocchetto ha atteso al varco l’ennesima ripresa della Bohème al Teatro La Fenice (nove recite dal 16 al 25 marzo). Primo: in gennaio il capolavoro pucciniano ha inaugurato la stagione del Teatro Comunale di Bologna, con una lettura non meno che rivelatoria dal punto di vista sia musicale sia teatrale [leggi le recensioni dei due cast: Bologna, La bohème, 19/01/2018 e Bologna, La bohème, 23/01/2018]; l’aspettativa del pubblico nazionale intorno a questo titolo è così momentaneamente schizzata allo zenit, anziché far chiudere con benevolenza un occhio e un orecchio innanzi al popolare corso della tradizione. Secondo: a rendere speciale questa ripresa veneziana, e a promuoverla nella parte nobile del cartellone, doveva essere l’inedita concertazione di un musicista carismatico, Myung-Whun Chung, senz’altro capace di ispirare e condurre cantanti perlopiù freschi di debutto; un infortunio lo ha però costretto a rinunciare all’impegno, lasciando al teatro appena il tempo di individuare due sostituti.
Di tre recite si è fatto carico Francesco Lanzillotta, giovane e talentuoso; le altre sei – tra esse, quella qui recensita – sono toccate al veterano Stefano Ranzani. Egli aveva già curato la ripresa dell’anno scorso [leggi la recensione] e ne ha fondamentalmente rinnovato gli onesti limiti. L’orchestra veneziana gode di sempre maggiore prestanza tecnica, e basta poco per eccitare in essa un grandioso trasporto sinfonico; altra cosa è plasmarla onde accompagnare il canto senza sovrastarlo, o indirizzarla verso mire interpretative poste oltre la corretta lettura. Nella prima compagnia di cantanti, con queste premesse, ciascuno è finito col pensare per sé: ma con il venir meno di un coeso lavoro di squadra, anche le qualità individuali hanno perso risalto, lasciando alla memoria i soli passi più esteriori. Insolente nella sua facilità e ampiezza, per esempio, il Do sopracuto del tenore Ivan Ayon Rivas nella romanza di Rodolfo; ma non si coglie poi quale idea egli abbia del personaggio.
Ancora più sfuggente risulta la timida Mimì di Selene Zanetti, quasi possa bastare mera funzionalità alla protagonista; ed è curioso notare come Irina Dubrovskaya – un soprano che alla Fenice ha cantato l’Adina di Donizetti e l’Amina di Bellini – stia sulle uova più nella disinvolta malizia di Musetta che nel virtuosismo delle primedonne romantiche. Francesco Milanese, come Colline, svolge in punta di piedi «Vecchia zimarra, senti»; William Corrò, come Schaunard, si affranca con simpatia dall’ombra dei compagni; Julian Kim, come Marcello, si impone per timbro, smalto e vivacità nella recitazione. Abituali macchiette Benoît e Alcindoro, ambo affidati a Matteo Ferrara. Tutti rientrano nello spettacolo con regìa di Francesco Micheli, scene di Edoardo Sanchi e costumi di Silvia Aymonino; il fascino visivo rimane fuori discussione, più incerta è la messa a fuoco del dramma: ché La bohème racconta non tanto di spensieratezza giovanile quanto di iniziazione a dolore e morte.
foto Michele Crosera