Operazione Traviata
di Antonino Trotta
La traviata di Giuseppe Verdi nell’allestimento firmato dal genovese Giorgio Gallione ritorna al Carlo Felice dopo appena due anni dal debutto. Numerosissimi giovani accolgono con entusiasmo uno spettacolo che fatica a decollare.
Genova, 05 Maggio 2018 – Chi ha detto che una mela al giorno toglie il medico di torno? Di mele ce ne sono a quintali nella frugale casa di campagna eppure il torvo dottor Grenvil è sempre sulla scena, ineluttabile più del destino già segnato, a preludere l’infausta sorte che da lì a poco travolgerà inesorabile la povera Violetta. È ormai un albero spoglio la più celebre eroina del melodramma, un albero in cui s’è insidiato un fatale parassita che lentamente risucchia dall’interno tutta la linfa vitale. In questa asfissiante nube di predestinazione prende vita La traviata di Giuseppe Verdi al Teatro Carlo Felice di Genova.
Nell’arcata di un lungo flashback – idea non propriamente originale ma che si aggancia bene al ritorno del tema ferale anticipato dal preludio – l’allestimento di Giorgio Gallione, ripreso a distanza di due anni dal debutto dopo essere stato rabberciato per accogliere La rondine di Puccini nel mese scorso, racconta La traviata in una dimensione stilizzata scevra di ogni riferimento geografico e temporale (le diafane scenografie sono di Guido Fiorato) e sviluppa con insistenza il contrasto beffardo tra la rivalsa sentimentale e sociale della protagonista e l’avversità del fato che blocca su tutti i fronti ogni tentativo di elusione. Commisurati rispetto all’ottica modernista del “less is more” – e non nascondendo il sospetto che lo sfacciato minimalismo risponda al paradigma del “mater artium necessitas” più che a un’intuizione artistica sincera – ci sono buoni espedienti teatrali nell’impostazione di questa produzione: elegante la scelta di lasciare al dottor Grenvil l’onere di aprire il sipario prima del preludio (nonostante Signorini abbia avuto qualche comica difficoltà nel trovare i due lembi del tendaggio), efficace la sua costante presenza in scena, di buon gusto l’idea di ricreare il funerale con tanto di ombrelli neri come la prassi cinematografica americana insegna (sorvolando sulla pioggia di coriandoli argentati da vietare nei teatri lirici). Coerente anche l’onirica proiezione di Violetta in un fantasma, a volte uno a volte trino, che sembra trapiantato da una Lucia di Lammermoor e che si aggira sinistro nell’indefinito spazio circostante. Purtroppo la validità di tali accorgimenti è ben presto oscurata dall’ingombrante bruttezza di alcune trovate che, oltre a disturbare la dialogica visiva della narrazione, intorbidiscono la lettura affievolendo la più raffinata idea di fondo, anima l’intera macchina registica: coriandoli generosamente aspersi, coreografie confusionarie e convulsive poco aderenti tanto al testo quanto alle intenzioni registiche, drappeggi di bicchieri calati dal cielo prima del brindisi, irrispettosi costumi carnascialeschi al momento della morte di Violetta, il cappello del cuoco al secondo atto, strass, paillettes, lustrini e chi più ne ha più ne metta. Persino il taglio dei personaggi desta diverse perplessità. Può, la stessa mano che ha riservato a Rigoletto o Nabucco pagine pregne di commovente amore paterno, aver desiderato per Giorgio Germont una figura abietta, priva di qualsiasi empatia o umanità? È Alfredo talmente immaturo e capriccioso da infilare sotto la gonna di Violetta le banconote vinte al tavolo da gioco? Sono queste le domande che non trovano risposta e che, ancor più del dettaglio kitsch, penalizzano il risultato complessivo.
Prosegue sulla scia del minimalismo la direzione di Daniel Smith, parca di plasticità ed espressività. Annoia presto l’inflessibile scansione ritmica che unita alla piattezza dinamica smussa tutte le emozionanti angolosità della partitura. Anche la scelta dei tempi sembra ignorare le febbrili vibrazioni della trama musicale. C’è molta lentezza nel primo atto, soprattutto nella grande scena di Violetta dove il canto, come ricordava l’intramontabile Magda Olivero, deve richiamare l’idea di una «coppa di champagne debordante». Lentezza contrapposta invece all’eccessiva frenesia del secondo atto che divora la conflittualità del finale. Buona la prova dell’Orchestra del Teatro Carlo Felice, meno quella del coro che in alcuni momenti è apparso impreciso e poco a fuoco.
Ci sono delle buone intenzioni interpretative nella Violetta di Marta Torbidoni che segue con grande partecipazione la costruzione del proprio personaggio. Molto cauta nel primo atto, vuoi per l’ispidezza della cocnertazione, vuoi per il taglio registico che ci presenta una Violetta già morente dal preludio, risolve con pulizia e compostezza le insidiose agilità del duetto e della cabaletta. La voce è penalizzata però dalla mancanza di polpa nel registro grave che sfavorisce la resa al terzo atto e nell’ascesa in acuto si allarga e si indurisce, innescando spesso un instabile vibrato. Non eccelle Giulio Pelligra nei panni di Alfredo, costantemente in affanno e forzato nell’emissione, penalizzato forse da una voce non eccessivamente voluminosa alle prese con i grandi spazi del Carlo Felice. Mansoo Kim regala con il suo Germont padre la migliore prova sotto il profilo dell’espressività. Lo strumento è sonoro, ha un bel colore, la voce è ben emessa ma il fraseggio andrebbe curato con maggiore perizia. Completano il cast Marta Leung (Flora), Paola Santucci (Annina), Didier Pieri (Gastone), Ricardo Crampton (Barone Douphol), Claudio Ottino (Marchese d’Obigny), Manrico Signorini (Dottor Grenvil), Antonio Mannarino (Giuseppe), Filippo Balestra (Domestico di Flora) e Alessio Bianchini (Commissionario).
Non sarà stata una Traviata da ricordare, ma il pubblico è numerosissimo. I numeri parlano chiaro, più di ottomila presenze in sole cinque recite. Tantissimi giovani, evidentemente alla prima opera lirica, incentivati anche da alcune iniziative che hanno offerto l’opportunità di avvicinarsi all’accattivante mondo del teatro. Un’operazione di marketing che, oltre alle casse della biglietteria, ha rinverdito anche le file della platea. E se qualche melomane sarà rimasto deluso, pazienza. Il teatro ha bisogno anche di questo.
foto Marcello Orselli