La ritrovata forza di Samson
di Francesco Lora
Nuovo allestimento di Samson et Dalila di Saint-Saëns alla Staatsoper di Vienna. Nelle parti protagonistiche, superbo il debutto di Roberto Alagna e interessante quello di Elīna Garanča, affiancati dal già esperto Carlos Álvarez. Una più disinibita direzione musicale e una più stringente visione teatrale, tuttavia, avrebbero potuto assicurare all’intera operazione un pregio pari agli auspicii.
VIENNA, 12 maggio 2018 – Alla Staatsoper di Vienna, malgrado le stagioni da quaranta titoli alla volta, Samson et Dalila mancava dal 1994. A far notizia è però non tanto il ritorno del capolavoro di Saint-Saëns – nuovo allestimento scenico, sei recite dal 12 al 28 giugno – quanto il paio di debutti imperdibili procurati allo spettacolo. Il primo è quello di Roberto Alagna nella parte protagonistica del giudice d’Israele. Debutto superbo: alle soglie dei cinquantacinque anni, il corredo vocale e canoro del tenore franco-italiano ha smalto da vendere, risonanza incrementata, modulazione facile, omogeneità costante, dizione nitidissima, fragrante enfasi d’accento da ricondurre alla più forbita tradizione declamatoria francese, timbro di tale amorosa avvenenza da far vergognare d’aver già complimentato quello altrui; unito tutto ciò all’entusiasmo dell’attore, fin dalla recita d’esordio si ha certezza d’essere al cospetto del più dotato, convinto e attendibile interprete oggi disponibile alla maiuscola parte di Samson.
Il secondo debutto è quello di Elīna Garanča nella parte coprotagonistica della seduttrice filistea. Ma più che cogliere un obiettivo agognato in un percorso artistico, qui l’approccio sembra cercare un semplice ampliamento nell’àmbito del corrente – e tutto sommato ristretto – repertorio mediosopranile, ossia la mera presa di possesso di un ruolo inevitabile benché non tra i più connaturati. In altre parole: la Garanča dispiega in scena la propria bellezza statica, ma non per questo dà luogo a un personaggio travolgente; reca in dote un timbro di velluto e un’emissione omogenea: il primo, però, anziché caricarsi di molle ed esotica sensualità nell’affondo alla regione grave, diviene rigido, severo, sfavorito da un’estensione che cerca lo sfogo soprattutto nel settore acuto, mentre l’emissione stessa si frange già alle prime note sotto il rigo, confidando in un registro di petto per la verità né rotondo né voluminoso. Un’interprete d’interesse, dunque, ma non di riferimento; un buon tentativo, non un investimento.
La parte baritonale del Gran Sacerdote di Dagon era invece già nell’esperienza del solito eccellente Carlos Álvarez. Egli canta in punta di voce senza voler ostentare più del necessario all’equilibrato veicolo di parola e musica, eppure già così si ascolta da lui il trabocco di timbro e colori, nonché – a maggior ragione – l’alta scuola del legato, l’agio estensivo e la sottigliezza dello studio. Validi elementi della compagnia stabile della Staatsoper si fanno carico delle parti restanti: Sorin Coliban come ruvido e bieco Abimélech, Dan Paul Dumitrescu come paterno vecchio Ebreo, infine i sempre puntuali Leonardo Navarro, Jörg Schneider e Marcus Pelz, rispettivamente come Messaggero e Filistei primo e secondo. Nonostante la lampante dedizione delle maestranze della Staatsoper – il coro in particolare giunge qui a una prestanza degna delle compagini italiane – una più disinibita direzione musicale e una più stringente visione teatrale avrebbero potuto assicurare all’intera operazione un pregio pari agli auspicii.
Il concertatore, Marco Armiliato, è infatti al di sopra di ogni discussione quando si tratti di agevolare dal podio il lavoro dei cantanti: li asseconda, li ascolta, li aiuta, respira con loro. Non è però l’alchimista di veli, tinte, indugi, malizie, splendori e grandezze intrinseci alla partitura di Saint-Saëns, la quale trasuda ebbrezza orientale, antichità biblica e gigantismo oratoriale, degni dei massimi interpreti di Berlioz, Liszt, Massenet, Meyerbeer e Wagner tra gli altri. Ne consegue che i Wiener Philharmoniker mostrino i muscoli il pomeriggio stesso e l’indomani mattina, nel vicino Musikverein, eseguendo la Nona di Beethoven sotto la fiammeggiante direzione di Andris Nelsons, e che molti dei medesimi professori, come orchestra della Staatsoper, si assopiscano invece in un Samson et Dalila insolitamente sommesso, monocromo, introverso, carezzevole: corretto sempre, ma poco idiomatico soprattutto sulla scena di Vienna, avvezza a una ben altrimenti esaltante esibizione di virtuosismo strumentale.
Quanto al nuovo allestimento, esso prevede il trasporto dell’azione all’età contemporanea mediante le scene di Raimund Orfeo Voigt, i costumi di Su Bühler, le luci di Gerrit Jurda e la coreografia di Lukas Gaudernak. La regìa è di Alexandra Liedtke, semidebuttante nel teatro d’opera dopo due soli prodromi nei periferici Stadttheather di Baden e Landestheather di Salisburgo. In un’intervista impaginata nel programma di sala si leggono sue corpose esegesi; la loro realizzazione scenica, tuttavia, si appiattisce in una visione senza gesti forti, decodificabile a fatica quando intenda contrastare la didascalia originale. Rimarrà un mistero, per chi scrive, la ragione onde i protagonisti debbano duettare intorno a una vasca da bagno e poi infradiciarsi sotto una pioggia scrosciante; o la ragione onde il finale sia risolto non col simbolico crollo del tempio sotto la ritrovata forza di Samson, bensì con un’esplosione che non potrebbe essere lui a provocare. Rimarrà un mistero o – peggio – nemmeno interesserà.
foto © Wiener Staatsoper Michael Pohn