Hasse, serenata in Tirolo
Il Festival di Musica antica di Innsbruck ha restituito all’ascolto La Semele di Hasse, corredandola di un allestimento scenico non richiesto dal genere della serenata, ma anche di interpreti musicali tutti di superiore ed esemplare qualità italiana: con il direttore Claudio Osele, in particolare le cantanti Francesca Aspromonte, Roberta Invernizzi e Sonia Prina.
INNSBRUCK, 25 agosto 2018 – Soprattutto nella Napoli del primo Settecento, il genere della serenata si era standardizzato: una cantata dialogica con azione immaginaria e non rappresentata, per tre voci sole con strumenti, suddivisa in due parti e abbastanza corposa da bastare a fare serata. Un esempio perfetto è dato da Aci, Galatea e Polifemo di Handel (1708), o anche dalla gemella e neorivalutata Iole di Porpora (1711). Di quasi vent’anni di più tarda (1726), La Semele o sia La richiesta fatale di Johann Adolf Hasse riconferma la fortuna e la cristallizzazione del genere in oggetto, con lo stile di un compositore destinato a divenire il più celebre nell’Europa del suo tempo e tuttavia ancora legato – cosa ottima – al modello di Alessandro Scarlatti. Edita la partitura manoscritta oggi nell’archivio viennese del Gesellschaft der Musikfreunde, la serenata hassiana è stata restituita all’ascolto nel Festival di Musica antica di Innsbruck, il 25 e 26 agosto, per due impegnative recite in sole ventisette ore nel Landestheater tirolese.
Accettabile ma insieme pericolosa è stata la scelta di eseguire il lavoro non in forma di concerto – come dovrebbe essere, con eventuale apparato – bensì in forma scenica. Accettabile, si diceva, poiché la regìa di Georg Quander è arguta, scorrevole, chiarificatrice, sempre rispettosa di una partitura che rimane il polo centrale da riscoprire; ciò malgrado le scene e i costumi di Veronika Stemberger siano incoerenti tra loro e col testo: a definire lo spazio sono vertiginose proiezioni degli affreschi nella Sala dei Giganti di Giulio Romano, pura Mantova del Cinquecento, mentre ad abiti contemporanei, con falsa filologia, se ne mescolano altri ispirati a un Settecento di maniera, lontano dalla Napoli del 1726. Scelta pericolosa, si diceva poi, in quanto La Semele implica oltre due ore e mezza di musica, e le fa ricadere sulla resistenza fisica di tre sole interpreti vocali: aggiungere allo sforzo canoro quello dell’azione scenica, anziché limitarsi alla quiete dietro un leggio, procura un aggravio di lavoro non previsto dall’autore.
È successo allora che Claudio Osele, direttore rigoroso e appassionato alla testa dell’orchestra Le Musiche Nove, nonché curatore dell’edizione usata e così attento alle ragioni della partitura, si sia trovato costretto a sforbiciare qui e là, e in modo più vistoso nei da capo delle arie. Questa pur spiacevole compensazione ha messo in sicurezza le energie delle tre cantanti: tre eroine odierne del canto Sei-Settecentesco, a maggior ragione per il fatto di testimoniare la quintessenza dello stile italiano – a partire dalla corretta e sfumata prosodia – in un territorio ove si privilegiano l’affettazione o l’iperrealismo, nell’incuria del meccanismo linguistico. Eccellente, dunque, Francesca Aspromonte come Semele: giovane ambiziosa e palpitante nella caratterizzazione, ma solida primadonna nella scaltrezza delle risorse, con un gioco scenico che seduce per fresca scioltezza. Di pari rango Roberta Invernizzi come Giunone e Sonia Prina come Giove: maestra di sottigliezza retorica la prima, di inconfondibile esuberanza la seconda.
foto © Innsbrucker Festwochen / Rupert Larl