L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Parole e musica, Italia latita

 di Francesco Lora

Al Festival di Musica antica di Innsbruck, Gli amori d’Apollo e di Dafne di Cavalli doveva valorizzare il Seicento veneziano e una nuova generazione di cantanti. Al contrario, emerge su più fronti un’insufficiente consapevolezza linguistica: quanto basta a ipotecare carriere degne di tal nome.

INNSBRUCK, 23 agosto 2018 – Gli amori d’Apollo e di Dafne è una tra le prime opere concepite per il teatro impresariale: consta del libretto d’esordio di Giovanni Francesco Busenello (poi autore dei versi dell’Incoronazione di Poppea) e della seconda partitura teatrale di Francesco Cavalli (da lì in avanti eroe nella storia del genere operistico); ebbe il proprio battesimo a Venezia, nel Teatro di S. Cassiano, durante il carnevale 1640, e se ne conservano le musiche. Con tre recite dal 20 al 23 agosto, il Festival di Musica antica di Innsbruck ha scelto questo lavoro scenico come secondo dei tre in cartellone – insieme con Didone abbandonata [leggi la recensione] di Mercadante e La Semele di Hasse [leggi la recensione] – e ne ha fatto lo spettacolo in relazione col proprio concorso internazionale di canto barocco intitolato a Pietro Antonio Cesti: chi l’anno scorso è stato vincitore di un premio o partecipante meritevole, quest’anno è stato invitato a figurare tra gli interpreti. Un’occasione per discutere sullo stato dell’opera italiana del Seicento all’estero.

All’ultima recita il cielo minacciava pioggia, e lo spettacolo è stato trasferito al chiuso, dall’antico cortile della Facoltà di Teologia alla grande aula del SoWi nell’Università tirolese: uno svantaggio per il colpo d’occhio, un vantaggio per la qualità acustica, nessun disagio per l’azione teatrale. In estrema economia di mezzi, quest’ultima ha avuto regìa di Alessandra Premoli, costumi di Mariana Fracasso e scene caratterizzate da una compagnia di teatro delle ombre, AlTREtracce: un modo – secondo la regista – per evocare la cultura barocca del sogno e dell’illusione. A chi scrive interessa piuttosto rilevare l’ennesimo atto di sfiducia verso un testo operistico pre-romantico: in un festival che per sua natura dovrebbe essere votato alla filologia e alla formazione di un pubblico consapevole e critico, la lettura della Premoli è stata soprattutto caratterizzata da vigorosi tagli, che non solo hanno menomato un’opera di per sé non lunga (circa due ore e mezza d’ascolto), ma anche ne hanno sfigurato l’equilibrata fisionomia e la studiata drammaturgia.

L’esempio più clamoroso è nella sforbiciata di tutte le ultime scene, con la fine anticipata al verso d’effetto «della sua Dafne non si scordi il Sole»: così è lasciato a metà il tenero dialogo di riconciliazione tra Apollo e la ninfa trasformata in alloro; così non si comprende più il senso della presenza di Pan, testimone di metamorfosi e pianto divino; così decade la ricapitolazione del dramma e dei suoi fini morali, utili al 2018 non meno che al 1640. Ciò spiace a maggior ragione poiché operato con disinvoltura, in un lavoro basato più sulla parola che sulla musica, da italiani che dovrebbero invece esportare intatta la loro eredità: si allude sempre alla Premoli, ma anche al concertatore Massimiliano Toni. Nella realizzazione musicale di quest’ultimo l’intenzione di fare bene rimane fuori discussione: ma mentre l’ensemble strumentale Accademia La Chimera pecca di horror vacui, con continue mutazioni di amalgami timbrici e fino a includere nell’organico i cornetti di uso ecclesiastico, il necessario lavoro di cesello con i cantanti rimane ben lontano dal dovuto primo piano.

Un solo problema, e solo un problema, sembra accomunare Sara-Maria Saalmann (come Dafne), Deborah Cachet (Procri, Ninfa, Musa), Isabelle Rejall (Itaton, Venere, Filena, Musa), Isaiah Bell (Morfeo, Cirilla, Pastore), Juho Punkeri (Titone, Cefalo, Pan) e Jasin Rammal-Rykała (Panto, Alfesibeo, Pastore): per quanto tutti si impegnino, non hanno sufficiente esperienza della lingua e della prosodia, della retorica e dei colori della lingua italiana, sicché il loro porgere oscilla sempre, senza giusto mezzo, tra l’inerzia e l’eccesso. La vicinanza di tre eccezioni fa da impietosa cartina al tornasole per gli altri: il dominio della parola è più spigliato nel venezuelano Rodrigo Sosa dal Pozzo (Apollo) e nel madrelingua Andrea Pellegrini (Sonno, Giove, Peneo), fino a divenire una superba prova di stile nella vivida, timbrata, morbida e sfumata Giulia Bolcato (Amore; ma anche un brandello della parte di Aurora: data l’indisposizione di Éléonore Pancrazi, il personaggio è finito smembrato, senza esplicito avviso al pubblico, tra le colleghe di uguale registro sopranile).

Le preoccupazioni sulla formazione di nuovi cantanti per il repertorio del Sei-Settecento si acuiscono presenziando – 24 agosto, nel Conservatorio del Tirolo – alla finale del nuovo concorso Cesti, mirato anche alla formazione della compagnia per un prossimo Ottone di Handel. Tra i dodici finalisti (ma nessun italiano), il soprano Marie Lys guadagna il primo premio cantando «Falsa immagine, m’ingannasti» da Ottone, con eleganza e sobrietà, e «Scherza in mar la navicella» da Lotario, impavida nel canto di sbalzo e d’agilità; il secondo premio va al controtenore Cameron Shahbazi, invero interessante per la finezza espressiva e la cospicua risonanza esibite in «Dove sei, dolce mia vita» da Ottone e in «Se fiera belva ha cinto» da Rodelinda; gli altri premi finiscono dispersi tra giovani che, pur avendo tutti portato con caparbietà in concorso arie italiane, mostrano di nuovo la loro estraneità alle prerogative della nostra tradizione, e dunque l’immaturità a una carriera che lì li attende al varco. La cura sarebbe semplice: tralasciare qualche masterclass e farsi una vacanza in Italia.

foto © Innsbrucker Festwochen / Rupert Larl


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