Trilogia dell’incompiutezza
Il Teatro del Maggio Musicale Fiorentino investe assai in un nuovo allestimento, economico ma ambizioso, di Rigoletto, La traviata e Il trovatore. Ma se la lettura teatrale di Francesco Micheli incappa nel dissenso del pubblico, anche la concertazione musicale di Fabio Luisi alterna passi privilegiati con altri trascurati. Compagnie di canto senza divi.
FIRENZE, 15, 16 e 21 settembre 2018 – «Che la cosiddetta “trilogia popolare” di Verdi sia una costruzione culturale tardiva e del tutto estranea alle intenzioni d’autore è un fatto assodato da cui è abbastanza inevitabile partire. Di certo Verdi non concepì le tre opere che formano tale terna ... come un tutto. Anzi, si tratta di opere diversissime tra loro», accomunate sotto tale locuzione forse non prima del 1912 e in implicita opposizione alla “trilogia modernista” di Wagner (cioè la Tetralogia, cui nell’Italia tra fine Ottocento e primo Novecento ci si riferiva senza contare il prologo, Das Rheingold). A spiegarlo con l’abituale sottigliezza è Emilio Sala, in una premessa a Rigoletto, La traviata e Il trovatore, opere assieme in scena al Teatro del Maggio Musicale Fiorentino: tredici recite intrecciate dal 13 al 30 settembre; e tre corrispondenti volumetti di sala che, posti l’uno accanto all’altro, colorano coi loro dorsi la libreria di verde, bianco e rosso: la bandiera italiana.
La veste tipografica deriva dall’idea registica di Francesco Micheli, realizzata di titolo in titolo con i collaboratori Benedetto Sicca, Valentino Villa e Paola Rota, e per tutti i titoli con la scenografa Federica Parolini e il costumista Alessio Rosati. A dire del regista, la “trilogia popolare” è «un’eredità ... che parla di noi, popolo italiano, per quello che eravamo e che non smettiamo di essere, nei desideri intimi e nelle relazioni tra le persone»; essa «diventa così un novello tricolore: sarà proprio la bandiera italiana, come un grande sipario, ad accogliere in ogni rappresentazione il pubblico ... Ogni colore allude a una delle tre opere, in effetti caratterizzata da una “tinta” peculiare: il rosso fuoco, il rosso passione proprio dei conflitti nel Trovatore; il bianco camelia, il bianco funebre della protagonista, Traviata; il verde palude, il verde-rame della corte di Rigoletto. All’inizio di ognuna delle tre opere il vessillo nostrano si lacera nelle sue tre parti; da quegli strappi si fanno spazio individui sparuti che via via formano una collettività: il popolo italiano».
In questo allestimento uno e trino, economico ma ambizioso, ammiccante a un pubblico rinnovato, il Teatro del MMF investe assai: riprese di Rigoletto e della Traviata sono già programmate fino al novembre 2019 e all’aprile 2020. Ma l’ululante e quasi unanime dissenso del pubblico, alle prime recite, già richiama al pettine parecchi nodi drammaturgici. Il problema è nella disintegrazione – e nella solo fittizia ricomposizione, considerato il modo cervellotico – del carattere popolare del progetto: lo spettatore non trova qui una neutra illustrazione delle tre opere verdiane, bensì una lettura ben più interessata all’esterno che all’interno del testo.
In altre parole, con un esempio (e uno basti): in Rigoletto è portata in scena e indagata, con uno studiato gioco mimico, la misteriosa, muta e inutile Duchessa di Mantova, della quale nulla si saprebbe – né interessa sapere – se un paggio non venisse a ricercarne il licenzioso sposo; al contrario Rigoletto, in modi, gesto e figura, rimane in tutto e per tutto identico a ogni altro personaggio che lo circondi: risulta così annullata la necessità di circoscriverlo – in un qualche modo, gobba o non gobba – come diverso: una condizione fondamentale non solo in questo protagonista vilipeso e rabbioso, cui è preclusa l’integrazione per peccato di non-convenzionalità fisica e morale, ma anche in tutta la dura legge sociale del teatro verdiano (da Stiffelio a Violetta Valéry, da Don Alvaro a Simon Boccanegra, da Otello a Sir John Falstaff).
Spiace metterlo per iscritto, ma alla triplice incompiutezza dell’impostazione teatrale corrisponde quella altrettanto triplice della concertazione musicale. Nell’arguto saltellare puntato di «Questa o quella per me pari sono», che inibisce al tenore la tradizionale corona sul La bemolle dopo lo svolgimento madrigalistico della quartina di semicrome; nell’immobile incedere di «Dite alla giovine – sì bella e pura», ove l’oboe piange su un’orchestra che parrebbe voler sparire in pudico silenzio anziché assistere all’atto autosacrificale; nella grandiosa tensione che arroventa entrambi i cantabili di Leonora, e che va fiammeggiando poi a pieni giri di orchestra e coro nell’impeto martellante di strette, cabalette, cori di zingari e soldati: in tutto questo si ammira la statura artistica di Fabio Luisi, capace come pochi di proclamare l’originalità e la modernità del vocabolario verdiano. In ciascuna delle tre opere, tuttavia, netta risulta la differenza di trattamento tra il passo amato, rifinito, trasfigurato, e quello invece inteso come pragmatica transizione di non pari dignità retorica: l’unitaria arcata teatrale messa a punto da Verdi attraverso i “numeri” musicali, condensati nella quantità e collegati nelle strutture, si sfalda così nella logica della loro individualità se non soltanto delle loro sezioni, fino al sistematico, catastrofico e inaccettabile taglio delle riprese delle cabalette (ridotte dunque a sgraziati mozziconi) e delle seconde strofe di romanza (con le quali Violetta perde mezza identità).
Compagnie di canto senza divi. Circa i tre soprani: Jessica Nuccio, come Gilda, appare più matura rispetto alle recite parmigiane di gennaio, sostituendo all’innocente monotonia nuovi tratti di risoluto eroismo; Zuzana Marková, come Violetta, si fregia di uno studio capillare della parte ma risulta frenata da un contesto non abbastanza incline all’analisi dell’enorme personaggio; Jennifer Rowley, come Leonora, ha legato, timbro e smalto da vendere, oltre che una generosa risonanza, ma avvalori questo ben di Dio con miglior cura dell’intonazione. Circa i tre tenori: Iván Ayón Rivas, come Duca di Mantova, affronta la parte con facilità spavalda, ma dopo l’euforia del primo momento insinua il sospetto di non aver altro da aggiungere; Matteo Lippi, come Alfredo Germont, sembra resuscitare in modo miracoloso la spontaneità radiosa e la fragrante comunicativa del compianto Vincenzo La Scola; Piero Pretti, come Manrico, dopo essersi barcamenato nell’iperurania tessitura del Pirata, non teme ora di certo il Do della “Pira”, preso e tenuto quasi con noia. Circa i tre baritoni: Yngve Søberg, come Rigoletto, debutta in una parte che gli sta larghissima a fronte sia degli spigolosi grezzi mezzi vocali, sia di un’impacciata prosodia italiana; Giuseppe Altomare, come Giorgio Germont, offre un saggio di come una dotazione vocale ordinaria possa assestare comunque un’alta prova nel segno di stile e misura; Massimo Cavalletti, come Conte di Luna, dà speculare dimostrazione di come una dotazione esuberante possa impastoiarsi nei luoghi che pretendono duttilità. Menzione a parte per il mezzosoprano Olesya Petrova, come Azucena: secondo l’inesorabile tradizione dei russi piovuti a guastare la festa, suo è il più sontuoso patrimonio canoro esibito in tutta la rassegna. Come Sparafucile e Ferrando ci sono i bassi Giorgio Giuseppini e Gabriele Sagona, tutt’altro che inclini a strafare; come Conte di Monterone c’è un veterano, Carlo Cigni; e come Maddalena c’è anche un autentico contralto, Marina Ogii.
foto TerraProject/ Contrasto