Divergenze parallele
Il Festival Verdi porta in scena per la prima volta l'edizione critica, a cura di David Lawton, della versione francese del Trovatore data a Parigi nel 1857. Se Bob Wilson tiene fede al suo stile ben noto con una visione teatrale estetizzante e onirica che ha fatto discutere, la concertazione di Roberto Abbado non solo colma la scena dei colori, delle passioni e dell'azione altrimenti negati, ma restituisce anche lo spirito e le caratteristiche peculiari del Trouvère. Convincente il cast capeggiato da Roberta Mantegna, Nino Surguladze, Giuseppe Gipali e Franco Vassallo.
PARMA, 4 ottobre 2018 - “È il racconto d'un povero idiota; vento e suono che nulla dinota!” Chissà se sono stati i versi di Macbeth a ispirare Bob Wilson l'incontro fra il suo teatro e la versione francese del Trovatore verdiano? Certo, vien da pensarlo quando la vicenda pare sgorgare dai ricordi di un bizzarro barbuto dall'aria stralunata, come una specie di Verdi clownesco. Sembrano ombre distorte e cristallizzate della memoria quelle che appaiono e iniziano a cantare, ma il racconto, così astratto in figure imperturbabili, in sagome alienate antirealistiche, deliberatamente antiteatrali, finisce per assottigliarsi in pura forma, luce e geometria “che nulla dinota”. Nulla se non la pura ricerca estetica elevata a valore drammaturgico avulso dal testo, come una dimensione parallela che coesiste ma non converge con l'opera cui dovrebbe dar vita scenica. Talora la coincidenza degli opposti svelano sorprendenti suggestioni, come nel terzetto del primo atto, in cui la tensione palpabile distillata da Roberto Abbado sul podio sembra fremere ancor più rapprendendosi in corpi raggelati. In un'opera che già di per sé concentra l'azione in pochi momenti favorendo la riflessione e il racconto, il testo francese, peraltro, aiuta eliminando molti dei riferimenti gestuali e spaziali presenti nel libretto italiano (per tutte “Ti veggo a me d'accanto!” nel finale secondo diventa “Il vit! Il vit encore!”), tuttavia ciò non basta a reggere quasi tre ore di spettacolo. Ne fanno le spese soprattutto i ballabili del terz'atto, venticinque minuti di musica che oggi sarebbero, è vero, difficilmente proponibili nella forma del puro divertissement, ma che Wilson trasforma in una sequenza visivamente estenuante, anche accettato (in virtù di un'idea generica di conflitto universale o magari dell'accostamento fra il grigio azzurro complessivo e il rosso scarlatto dei guantoni) l'impatto straniante di una parentesi che poco o nulla ha a che fare con il contesto. Dopotutto siamo in una dimensione onirica, e a tutti sarà capitato di fondere in un unico sogno episodi senza apparente relazione logica, tuttavia in teatro venticinque minuti di continui ingressi, riscaldamenti e scontri pugilistici senza alcuna vera varietà o sviluppo narrativo sono troppi. Sono stati inesorabilmente troppi, e inesorabilmente mal accolti dal pubblico in sala. Né la presenza di controscene affidate al Pierrot narratore barbuto, a un uomo in armatura, a una vistosa balia con carrozzina (memoria della Parma ottocentesca associata forse alla maternità problematica di Azucena), a una giovane donna che si reca alla fontana con due bimbe gemelle (la gioventù della gitana sovrapposta a quella dei fratelli De Luna con l'acqua a scalzare il fuoco?) porta qualche contributo sostanziale alla drammaturgia. A meno di non volersi abbandonare totalmente al concatenarsi dell'immaginazione di Wilson, i piani paralleli divergono e si ancorano l'un l'altro solo laddove nella versione francese Verdi indulge e rarefà il respiro drammatico, mentre il regista pare arpionarsi alla partitura con lampi di led associati ad acuti e impennate della linea melodica. Ancoraggi occasionali fra mondi sovrapposti ma alieni, come d'altra parte ammette lo stesso Wilson nelle suo note, che portano alle estreme conseguenze un ragionamento in partenza condivisibilissimo: il teatro verdiano non è e non deve essere orpello, sfarzo, apparenza, ma badare alla sostanza del dramma, alla sua dimensione più intima e autentica. Nel togliere l'orpello, però, Wilson rischia di togliere anche il teatro stesso, o, meglio, di ricondurre tutto a un proprio ideale ultimo e imperturbabile di pura forma sempre uguale a se stessa, tanto che, paradossalmente, quel che funziona peggio è quel che a questo dissanguamento poi si risovrappone, le maschere e le comparse liberamente associate dall'artista texano.
Dunque, se le intenzioni sono di concentrar tutto sulla musica, questa stessa non si giova del parallelismo divergente wilsoniano, quanto del contrasto che Roberto Abbado riesce a creare con una concertazione magistrale. L'acustica non è amica: il progetto Maestri al Farnese aveva proprio l'intento di giustificare con registi d'avanguardia l'utilizzo per l'opera di uno spazio di grande fascino ma che per l'opera non è nato. Infatti, anche dal punto di vista strettamente musicale, i risultati migliori si sono ottenuti quanto più si è osato: Vick con lo “Stiffelio in piedi” del 2017 [leggi la recensione], Greenaway con la meno entusiasmante Giovanna d'Arco del 2016 [leggi la recensione]; Wilson adotta la disposizione tradizionale palcoscenico/platea e risulta anche quella meno congeniale all'ascolto. Curioso paradosso del Teatro Farnese! Tuttavia, l'esperienza è di piena soddisfazione e non solo perché le prove di orchestra, coro e solisti appagano le aspettative, ma soprattutto perché tutta l'interpretazione è illuminata da una grande intelligenza. Non si ha mai, mai l'impressione di assistere sic et simpliciter a un Trovatore cantato in francese: la cura della prosodia musicale, dei respiri adattati al nuovo testo (dalla sintassi molto più semplice e rapida) e dei piccoli dettagli di ritmo e accento che Verdi raffina fa ben intendere lo spirito peculiare del Trouvère. Capiamo bene che non si tratta solo di inserire i ballabili nel terz'atto e una manciata di versi per Azucena o cassare la cabaletta di Léonore nel quarto atto in favore della ripresa del Miserere nel finale (e quella dilatazione del cammino di Manrique verso il patibolo getta un'ombra inquietante sull'esitazione di Azucena a svelarne l'identità): c'è un lavoro di profondo ripensamento, palese là dove, per esempio, s'ammorbidisce il primo approccio di Léonore nell'oscurità al creduto Manrique o si avalla, senza puntature fuori ordinanza, l'unione di soprano e tenore nelle ultime battute del secondo atto, giacché i versi culminanti in “Tous deux soyons unis” evitano la ridicolaggine posticcia di “Son io dal ciel disceso o in ciel son io con te”. Piccoli dettagli, forse, ma che ribadiscono l'attenzione alla pratica teatrale, la sensibilità e l'intelligenza di Verdi. Tutte qualità che Roberto Abbado esalta con un fraseggio raffinatissimo, ma anche agile, scattante, ricco di tutti quei colori, di quei gesti, di quelle passioni che la scena raggela. Eppure non rema contro lo spettacolo di Wilson, anzi: sembra prenderlo affettuosamente a braccetto per intrecciare due piani differenti, per far scoccare una scintilla dall'attrito fra i sensi, fra la geometria surreale e glaciale che s'impone alla vista e l'iride di fiamme e madreperla che agisce per l'udito. E se anche la messa in scena non tiene sempre il passo e non realizza tutta l'alchimia, la concertazione regala tutto il gusto di conoscere fisicamente la musica del Trouvère.
Parimenti le voci colgono alla perfezione il senso dello spettacolo, a partire dall'Azucena di Nino Surguladze, che forse non avrebbe egual efficacia in una lettura all'italiana, mentre qui sa essere tagliente, alienata, sottile come par naturale con testo e strumentazione francese, nonché con gesto e pose wilsoniane. Anche la tendenza ad alcune emissioni fisse di Franco Vassallo non solo si sposa bene alla sua figura scenica vampiresca, ma rende anche l'animo prosciugato più che passionale di un uomo che appare, in questa versione, benché innamorato soprattutto eroso dal giuramento di vendicare lo scomparso fratellino, quasi un contraltare di Azucena. Giuseppe Gipali canta con eleganza ricordando che stiamo parlando di un poeta cavalleresco, e non di un guascone lanciatore di acuti, anche se si riserva comunque qualche prudenza per arrivare senza preoccupazioni all'appuntamento con il Do di “Bûcher infame”. Chi però colpisce maggiormente è la Léonore di Roberta Mantegna, voce omogenea e ben proiettata, di smalto morbido e lucente, sicura in una parte che non concede sconti anche senza l'onere di “Tu vedrai che amore in terra”. Solo in “Brise d'amour fidèle” (“D'amor sull'ali rosee”) la tessitura acuta delle ultime battute fa emergere qualche tensione, corretta la quale potremo salutare nella talentuosa trentenne palermitana un'autentica fuoriclasse.
Marco Spotti è un Fernand spettrale ed evanescente come un'ombra di morte, mentre Tonia Langella, Luca Casalin e Nicolò Donini completano il cast come Inés, Ruiz e messaggero, un vecchio zingaro. Il coro del Teatro Comunale di Bologna preparato da Andrea Faidutti fa bella mostra di sé, così come l'orchestra felsinea, sempre pronta a realizzare al meglio le indicazioni di Abbado.
La fredda luce azzurrina che attraversa i quattro atti del dramma verdiano rinnovato sulla traduzione francese di Emilien Pacini evidentemente non scalda gli animi di un pubblico che, dopo le rimostranze riservate alle coreografie, tributa meritati apprezzamenti a direttore e cantanti senza tuttavia particolari impeti d'entusiasmo.
foto Lucie Jansch