L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Venga Mosè!

 di Antonino Trotta

Una bella produzione di Mosè in Egitto fregia il cartellone del Teatro Coccia di Novara. Spiccano le prove di Ruzil Gatin e Silvia Dalla Benetta. La buona direzione di Francesco Pasqualetti e lo spettacolo lineare firmato da Lorenzo Maria Mucci omaggiano ancora il Cigno di Pesaro sullo scadere dell’anno rossiniano.

Novara, 18 Novembre 2018 – «È difficile immaginarsi l’urgano di applausi che travolse la sala: sembrava che i muri stessero per crollare. Gli spettatori, nei palchi, in piedi, sporgendosi in fuori per applaudire, gridavano a squarciagola: «bello! bello! o che bello!». Non ho mai visto un simile entusiasmo né un simile successo, tanto più grande quanto tutti erano pronti a ridere e ironizzare. […] Mi si venga a negare, dopo una simile serata, che la musica abbia un effetto diretto e fisico sui nervi!». Impossibile non emozionarsi alla lettura di questa straordinaria cronaca firmata da Stendhal che, nella Vita di Rossini, ricorda la terza ripresa del capolavoro rossiniano al Teatro San Carlo di Napoli. Dopo appena un anno dal debutto, Mosè in Egitto tornava in scena con una sostanziale novità, l’introduzione della preghiera «Dal tuo stellato soglio», oggi una delle pagine più rappresentative dell’intera opera, subito prima di quel finale che in origine causò, per ragioni scenotecniche, non pochi problemi. Passerà ancora qualche tempo prima che il Cigno consegni, in via definitiva nel 1822, l’eccezionale partitura nella versione che tutti conosciamo e che di norma si ascolta, a patto di trovare un teatro disposto a cimentarsi in un lavoro tanto sublime quanto impegnativo. Il Teatro Coccia di Novara – in collaborazione con il Teatro Verdi di Pisa, la Fondazione Haydn di Bolzano e Trento e l’Opéra-Théâtre de Metz Métropole – raccoglie la sfida e sullo scadere dell’anno rossiniano, già celebrato con La Cambiale di Matrimonio e con un appuntamento sinfonico programmato per il prossimo 18 dicembre dall’emblematico titolo Meno grigi, più Rossini, confeziona uno spettacolo estremamente appagante, in particolar modo nella realizzazione musicale.

La regia, affidata alle cure di Lorenzo Maria Mucci e Marika Petrizzelli (assistente alla regia), semplice e lineare, argomenta con garbo e intelligenza l’azione tragico-sacra nell’economia dei mezzi purtroppo a disposizione. L’idea percepita è quella di un approccio quasi reverenziale del libretto e della musica, tanto da rinunciare al rombo del fulmine nel finale secondo, reso con un pratico ma asettico flash delle luci (gestite con buon dinamismo ed eloquenza narrativa da Michele della Mea). La famigerata scena finale, invece, rivela un intuito più fine: un’enorme rete da pesca, immagine ricorrente nella dottrina cattolica di cui è pervasa l’opera (una citazione del pescatore di uomini?), si apre al gesto liberatore di Mosè per poi richiudersi, dopo il passaggio degli ebrei, sugli egiziani. Alla pulizia della lettura registica corrisponde un impianto scenografico di pari essenzialità. Nell’unica scena fissa, Josè Yaque e Valentina Bressan ricostruiscono un Egitto di design: quattro enormi stele di pietra (forse ancora un biblico riferimento alle tavole della legge) e una piattaforma color sabbia, realizzate con materiali di scarto, dominano l’intero palcoscenico e suggeriscono la sensazione di un’ambientazione fortemente stilizzata e funzionale. Belli i costumi, decisamente più espliciti nella contestualizzazione dell’opera (a eccezione del turbante di Osiride, più adatto a un Turco in Italia).

Le più grandi soddisfazione arrivano però dalla compagnia di canto. Su tutti si impone la splendida prova di Ruzil Gatin nei panni di Osiride. Già apprezzato come Conte di Libenskof nel Viaggio a Reims che ha inaugurato la stagione lirica del Teatro Sociale di Como (nel circuito di OperaLombardia, leggi la recensione), il giovane tenore russo, nel corso di una prova in crescendo, dà sfoggio di tutte le qualità richieste a un tenore rossiniano. Lo strumento, privilegiato nel timbro luminoso e stentoreo nell’emissione, è gestito con assoluto controllo di fraseggio e dinamiche. I passaggi di coloratura sono risolti con estrema facilità e naturalezza, specie nella tessitura acuta, con punte che arrivano senza difficoltà al do diesis e al re nel duetto «Parlar, spiegar non posso» e nel sensazionale quartetto del secondo atto, dove l’impeto virtuosistico si fa violento e tagliente. La gelida regina egiziana non può che trarre giovamento dalla frequentazione di Silvia Dalla Benetta con la principessa babilonese di Giuseppe Verdi: l’ingresso di Amaltea nel suddetto quartetto ricorda, per intensità drammatica e fierezza negli accenti, la sortita di Abigaille nel Nabucco (che a questa partitura deve molto). La vocalità ampia e rotonda, ben amalgamata in tutta l’estensione, svetta senza fatica nei pezzi d’assieme ma è nell’aria mutuata dal Ciro in Babilonia, «La pace mia smarrita», che il soprano vicentino guadagna l’indiscusso consenso del pubblico, dando dimostrazione di temperamento e musicalità e alternando a passaggi di grande lirismo impennate di vertiginoso virtuosismo. Positiva anche l’Elcia di Natalia Gavrilan, almeno sotto il profilo musicale. Se nel complesso il personaggio appare appena accennato nella costruzione scenica, la resa vocale è di prim’ordine per perizia nelle agilità, sempre ben sciorinate, flessibilità nelle dinamiche e incisività nella tessitura più acuta. Interessante e vario il fraseggio nel celebre finale del secondo atto, penalizzato esclusivamente da qualche affondo poco elegante nel registro di petto. La scrittura non propriamente congeniale alle proprie corde mette in difficoltà Alessandro Abis nel confronto con il Faraone, comunque molto apprezzabile per la qualità del materiale vocale e per la destrezza ostentata nell’aria e nel duetto con il figlio. Federico Sacchi sostiene la parte di Mosè nonostante l’annunciata indisposizione: la voce è importante e avvalora la ieraticità del profeta ma i problemi di emissione sono evidenti e compromettono spesso l’omogeneità della linea di canto. Energico l’Aronne di Matteo Roma che nell’esiguità di un ruolo di fianco sa trovare il giusto spazio di risalto, nei concertati e nelle battute scambiate con Osiride in chiusura del secondo atto, concedendosi anche qualche bella puntatura. Completano il cast Ilaria Ribezzi (Amenofi) e Marco Mustaro (Mambre), puntuali nei rispettivi interventi.

Alla guida dei complessi dell’Orchestra della Toscana, Francesco Pasqualetti offre una concertazione in cui convivono felicemente le luci e le ombre della partitura. Dalla pagine corali di natura oratoriale agli idilli sfacciatamente belcantistici, Pasqualetti dà risalto all’inventiva ritmica e strumentale rossiniana, assecondando una ricerca timbrica curiosa e di buona efficacia teatrale. L’equilibro con il palcoscenico, tuttavia, meriterebbe qualche attenzione in più, soprattutto quando la tensione si sviluppa puramente nell’intreccio vocale. Molto valida la prova del coro Ars Lyrica istruito dal Maestro Marco Bargagna.

Gli applausi scroscianti di una platea gremita confermano, ancora una volta, quello stesso entusiasmo che Stendhal racconta nei suo scritti e che, immutato, si perpetua nei secoli. In una realtà teatrale spesso fin troppo monotona, è un delitto dover attendere il festival dedicato per poter godere di tali capolavori. Ben vengano Mosè e gli altri grandi titoli del genio pesarese. A quanto pare, la provincia, prima degli altri, è già pronta.

foto Finotti


 

 

 
 
 

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