Riflessi vuoti
di Antonino Trotta
Meno entusiasmante è la seconda compagnia di canto impegnata nella Traviata del Teatro Regio di Torino, penalizzata dall’indisposizione di Irina Dubrovskaya.
Torino, 22 Dicembre 2018 – C’è un dato positivo – in termini aritmetici – nella Traviata andata in scena al Teatro Regio di Torino nel celebre allestimento di Svoboda/Brockhaus ed è la grande affluenza, rilevata nel corso di tre recite, di un pubblico insolitamente giovane. Se infatti si esulano dal censimento le scolaresche che hanno presenziato alcune date del Trovatore e dell'Elisir, la platea dicembrina sembra effettivamente rinverdita rispetto al trend dei mesi precedenti. A conferma del fatto che, indipendentemente dalla qualità dello spettacolo stesso, il titolo verdiano è sempre un elemento di grande richiamo anche per chi l’opera la frequenta di rado. Perché in effetti, rispetto alla prima compagnia, la recita affidata al secondo cast si è dimostrata meno entusiasmante.
Irina Dubrovskaya fatica a districarsi nell’impervia scrittura di Violetta affrontata – senza rinunciare all’inutile mi bemolle ma cassando piuttosto la ripresa di «Addio del passato» – a causa del perdurare di un’indisposizione. A momenti pregevoli – intenso l’attacco della cabaletta «Morro! ... La mia memoria» o la conclusione del secondo atto, a cui la caratura lirica della voce è comunque più congeniale – seguono passaggi dove i limiti della salute vocale si fanno sfacciatamente evidenti, specie agli estremi della tessitura (la declamazione della lettera, con bruschi passaggio all’emissione di petto, è decisamente il momento più brutto della sua serata).
Giulio Pelligra non ha convinto nella Traviata genovese dello scorso maggio [leggi la recensione] e continua a non convincere pienamente nell’allestimento torinese. Sebbene lo strumento risulti più disciplinato di allora, si percepisce ancora qualche asperità nella zona acuta e il fraseggio, abbastanza inerte nel secondo atto, grava sull’esito di una costruzione che appare poco partecipata. Solo nel duetto finale il suo Alfredo prende vita, impreziosendo con belle sfumatura una linea di canto poco privilegiata nel timbro.
Anche al netto di alcune imprecisioni di intonazione, è poco accattivante il Germont padre di Damiano Salerno, di nuovo al Regio di Torino dopo il Conte di Luna nel Trovatore inaugurale [leggi la recensione]. Si ha di fatto l’impressione di una voce scurita artificiosamente, a onta di un colore quasi tenorile, quindi appesantita e poco omogenea alle varie altezze. Il punto di forza di questo Germont, invero anch’egli deficitario sul piano scenico, è però il registro acuto, sicuro e perentorio nelle diverse puntature, di tradizione e non.
In cartellone si alternano anche gli interpreti di Giuseppe (Luigi della Monica, tenore dal bel timbro e dalla voce ben emessa), un domestico (Franco Rizzo) e un commissionario (Riccardo Mattiotto).
Della concertazione di Donato Renzetti si conferma quanto scritto in merito alla prima, postillando tuttavia la galanteria del direttore che ha saputo alleggerire il manto orchestrale in alcuni passaggi, come nell’attesissimo «Amami Alfredo», per accordare le necessità del soprano indisposto.
Il minor magnetismo del parterre vocale, purtroppo inefficace anche nei momenti di maggior intensità drammatica, non trova conforto nella regia di Brockhaus, i cui movimenti scenici (curati da Valentina Escobar) risultano adesso addirittura fastidiosi: pose plastiche e manierate, azioni che svolte esclusivamente in funzione dello spazio speculare, in questa Traviata sembrano esserci più riflessi che riflessioni.