L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

L’asceta del pianoforte

 di Stefano Ceccarelli

Un recital di Grigory Sokolov è sempre un evento assai atteso. Quest’anno in Accademia suona Franz Joseph Haydn e Franz Schubert: tre sonate del primo (Sonate nn. 32, 47 e 49) e i celebri Quattro improvvisi op. post. 142 D. 935 del secondo. Al netto di scelte interpretative discutibili e di una sensibilità poco incline ad abbracciare un discorso di sintesi, è proprio nell’analisi, nei passaggi più minuti che lo spirito di Sokolov emerge in tutto sé stesso, nel tocco e nella tecnica magnifica per cui è celebre nel mondo.

ROMA, 14 marzo 2018 – Il pubblico romano ama (quasi) incondizionatamente Grigory Sokolov, lo applaude con calore e trasporto, va in estasi quando, dal cappello a cilindro, tira fuori la sua sfilza di bis, la consueta terza parte di ogni suo concerto. L’ascetismo, la dedizione all’arte, il concentrarsi per lunghi periodi di tempo su singole composizioni, sono solo alcuni dei noti talenti del russo. All’Accademia di Santa Cecilia Sokolov torna con un programma diviso fra Haydn e Schubert, scegliendo fra le sonate di Haydn quelle che potessero essere più ‘schubertiane’ possibili.

Franz Joseph Haydn ‘schubertiano’? Schubertiano, vorrei dire, nel senso di sensibilità drammatica, in tutti i sensi. Potrebbe non essere subito perspicuo per chi abbia in testa la produzione sinfonica di Haydn o altri suoi importanti lavori, ma anche Haydn, padre spirituale del classicismo viennese, ebbe momenti di Sturm und Drang ante litteram. Sokolov ha scelto, per mostrarcelo, le poco battute sonate per pianoforte: le Hob. XVI 44, 32 e 36, romantiche, in un certo senso, come spiega la brillante penna di Piero Rattalino, in un programma di sala al solito eccellente. La prima (Sonata n. 32 in sol minore, Hob. XVI: 44), bipartita, sonda le possibilità sonore del sentimento della malinconia: sulla malinconia in Haydn mi piace qui ricordare un bel lavoro di Michele Napolitano [leggi], che giunge sostanzialmente alla conclusione che siamo noi a sentire ‘malinconicamente’ Haydn per la grande distanza che ci separa dal suo gusto e modo di far musica. Oltre ai nostri sensi e languori, però, in Haydn una nuance realmente malinconica talvolta c’è, dolcemente malinconica, direi, come nell’Hob. XVI. 44, appunto. Sokolov ha tanto strenui critici quanto indefessi ammiratori: non gli si può negare, questo no, l’arte di creare una vera e propria esperienza sonora. Nella prima delle tre sonate, il tocco fatato, l’impressionante pulizia nei passaggi, nei trilli, nelle scale, nei passaggi lievi di colore, giova non poco all’ethos del pezzo, di intima finezza: la malinconia è qui quasi carezzata con un certo pudore e la consueta lettura ‘allargata’ agogicamente conferisce quasi l’impressione realistica di un salotto aristocratico in cui una bella dama allieta qualcuno con l’ultimo ‘grido’ di Haydn. Certo, quella di Sokolov è più una raffinata mimesi di realtà. Una lettura attenta a accenti e colori fa in modo che Sokolov, a mio avviso, abbia perfettamente colto il senso del brano. Quello che succede dopo, però, ha del singolare. Viene il turno della Sonata n. 47 in si minore Hob. XVI: 32 e Sokolov la legge oramai impostato su un’intensità di riferimento (un mezzoforte estremamente sfumato) e un’agogica che forse non rende piena giustizia a diversi momenti della composizione: taluni appoggi nella prima parte e nella ripresa, come pure il moto ondulato che fa da perno alla parte centrale dell’Allegro moderato, sono sacrificati a un’idea di agogica troppo ‘malinconica’, quando qui dovrebbe emergere uno Sturm und Drang più deciso. Viene, dunque, meno qualche colore; qualche appoggio appare astenico: si ascolti, per converso, l’esecuzione di Ernst Levy (1956). Il Minuetto (II) manca anch’esso di colore; il Presto (III) di slancio. Ma, tecnicamente parlando, la pulizia, la sgranatura del suono e la bellezza di singoli, slegati passaggi, sono semplicemente incredibili. Nella Sonata n. 49 in do diesis minore Hob. XVI: 36, che Rattalino definisce come esempio di sublime in accordo ai canoni dell’estetica settecentesca, emerge ancora un Sokolov eccessivamente velato di malinconia, attentissimo a questioni di micro-estetica, meno all’architettura generale. Si colora di più lo Scherzando; ma nel Minuetto una caligine torna sui colori del pezzo. Il pubblico applaude fortemente, già in adorazione.

Nella seconda parte Sokolov affronta i Quattro improvvisi op. post. 142 D. 935 di Franz Schubert. Nel primo, Sokolov si assesta, ancora, su una dimensione sonora che poco si cura di un’architettura complessiva, di una lettura più emozionale, ma è spasmodicamente tesa alla perfezione del respiro del suono, singolarmente concepito: questo implica che l’agogica sia ancora stirata, molti passaggi non sfoghino una tensione mai effettivamente sbrigliata. Anche Arrau palesava una delicatezza quasi brillante nei passaggi e negli appoggi del pezzo, ma lo faceva appunto in omaggio a un’estetica Biedermeier che nel Sokolov dell’altra sera è stata certo assente; un pregio, qui, gli si deve comunque riconoscere: l’abilità di sfumare fra i colori è impressionante. Nel secondo, Sokolov incontra un’esecuzione più aderente al brano: i passaggi di scarico sono più marcati, i colori quasi sospesi, in una dimensione malinconica, e taluni passaggi sono abilmente cesellati, il tutto con maggior naturalezza. Nel terzo, Sokolov emerge con argentina brillantezza (come non si sentiva dal primo pezzo della serata): le variazioni sono ben ‘recitate’, scolpite nei loro singoli particolari, e la natura musicale di Sokolov, che tende al rubato e alla distensione agogica, incontra maggiormente la tradizione. Nel quarto, l’ipnotico ostinato ritmico iniziale, quasi un galoppo, è interrotto dall’esecuzione, con incredibile bellezza, delle scale e dei trilli, verso le cui estasi verticali Sokolov si ritira appena può. Il tocco, ancora, magnifico: diverse scelte esecutive, come la conclusione, poco d’effetto, lo sono certamente meno.

Gli applausi invadono la sala. Sokolov, quasi liberatosi dalla trance, attacca la terza parte del concerto, la serie di ben sei bis (taluni funestati da trilli di… cellulari…): l’Improvviso op. 90 n. 4 di Schubert; due pezzi di Rameau (Les Sauvages e Le Rappel des Oiseux), il Preludio op. 28, n. 15 di Chopin (celebre come ‘La goccia d’acqua’), il Valzer di Griboyedoff e il Preludio op. 11 n. 4, mandando letteralmente in delirio il già sovreccitato pubblico e regalandoci, probabilmente, la migliore parte del concerto.


 

 

 
 
 

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