Il turbinio della supplica
di Francesco Lora
Edizione numero zero del Festival di Musica sacra di Pavia, sostenuto dalla Fondazione Banca del Monte di Lombardia e sovrinteso dalla macchina artistica del Teatro alla Scala. Tra concerti da capogiro, impressiona quello sovrastato dalla colossale cupola del Duomo: Riccardo Chailly moltiplica i colori di Orchestra e Coro scaligeri nella Messa da Requiem di Verdi, mentre le parti solistiche spettano a Tamara Wilson, Ekaterina Gubanova, René Barbera e Ferruccio Furlanetto.
PAVIA, 22 maggio 2018 – Annunciata soltanto ai primi del mese e con poco battage pubblicitario, indi rapidamente celebrata in nove fitti giorni dal 19 al 27 maggio, ecco l’edizione numero zero di una rassegna che è il paese delle meraviglie. S’intitola lapidariamente Festival di Musica sacra, ma indulge con buona pace anche al profano; ha per sede Pavia e i suoi spazi storici, collegati in una mezz’ora di treno col centro di Milano; dà subitaneo colpo di sapore all’Anno della Cultura in Lombardia, iniziativa altrimenti languente; è foraggiata con mecenatismo d’altri tempi dalla Fondazione Banca del Monte di Lombardia; denota il marchio di Alexander Pereira e del Teatro alla Scala nelle scelte di mercato artistico; offre infine al pubblico l’ingresso gratuito – non è sogno – a concerti da capogiro, prodotti in esclusiva per sé o intercettati lungo le più prestigiose tournée in corso: quest’anno, una Petite messe solennelle di Rossini col canto di Rosa Feola, Veronica Simeoni, Francesco Meli e Gianluca Buratto, il Coro del Teatro alla Scala e la direzione di Bruno Casoni; quattro cantate di Bach dirette da John Eliot Gardiner con i suoi Monteverdi Choir ed English Baroque Soloists (programma presentato negli stessi giorni anche a Bologna e Perugia); una Messa da Requiem di Verdi firmata ancora dalla Scala e qui data in unica anteprima italiana rispetto alle esecuzioni all’Elbphilharmonie di Amburgo e alla Philharmonie di Parigi; un concerto incentrato sul celebre tenore proto-ottocentesco Manuel García, proveniente nientemeno che dal Festival di Pentecoste di Salisburgo, affidato all’epigono Javier Camarena e col lusso di un cameo di Cecilia Bartoli; un recital organistico di Martin Haselböck, coadiuvato dalle non minori referenze dei violini di Irma Niskanen e David Drabek nonché del contrabbasso di Walther Bachkönig; in conclusione, la Waisenhausmesse di Mozart e la Sinfonia n. 63 di Haydn dirette da Giovanni Antonini, con i cori dell’Accademia Teatro alla Scala e gli strumenti originali del Giardino Armonico.
Si è fatto scarno cenno alla Messa da Requiem verdiana, eseguita il 22 maggio, poiché se ne sta per dire a parte in modo più esteso. Speciale il luogo: il grandioso Duomo pavese, capolavoro del Rinascimento, sintesi di croce greca e latina, sormontato dalla colossale cupola. Spazio protagonista: è noto come il primo germe della partitura verdiana sia da ravvisare nel contributo alla Messa per Rossini, ed è noto come il luogo destinato all’esecuzione di questa fosse la Basilica di S. Petronio in Bologna, enorme volume ove la terza maggiore si genera da sé nella quinta e il riverbero tocca i dodici secondi. Già nel mettere a punto quel primo Libera me Domine, Verdi doveva essere affascinato dall’acustica dei templi massimi, così differente da quella nitida e asciutta dei teatri. Difatti anche nel Duomo di Pavia l’infinito ha risposto dagli ottanta metri di sommità al cupolino, mentre entro il circolo del tamburo architettonico turbinava la sterminata supplica a Dio giudice: si colgono allora meglio le misure prese dal compositore, qui terribili e sovrannaturali tanto nell’esplosione che irride il controllo tecnico quanto nel sussurro che si appoggia sereno sul riverbero. Qualcosa si perde – è vero – nel canto dei solisti. Ma il soprano Tamara Wilson lascia commossi per disperato sfogo di discorso, dà il volo a note in un pianissimo etereo, balza infine a un Do sopracuto che copre le masse, riempie la basilica, segna l’apoteosi. Gli sono vicini il mezzosoprano Ekaterina Gubanova, come un’ombra meno tragica e più dolente; il tenore René Barbera, che diffonde dolci tirate melodiche con agio di belcantista; il basso Ferruccio Furlanetto, granitico, borbottante e sulfureo con la forza di caratterizzazione di un Mefistofele. Il solito miracolo, infine, in Orchestra e Coro del Teatro alla Scala: tanto più che la loro presenza di suono nulla teme dall’erosione basilicale, e che la concertazione di Riccardo Chailly, signore e arbitro di apollineo equilibrio anche nell’evocare il giudizio universale, moltiplica in essi i colori come sarebbe impossibile ascoltare altrove.