Io son dolce serena
di Antonino Trotta
Anna Caterina Antonacci incanta alla Scala di Milano: l’arte del gesto e la maestria dell’espressività ipnotica fregiano la bellezza di un canto mutevole e raffinato.
Milano, 17 Giugno 2018 – La classe non è acqua e Anna Caterina Antonacci ne ha da vendere: il portamento nobile, il carisma magnetizzante, la personalità dirompente che sfugge ogni soffocante definizione e si riflette appieno in un repertorio di aristocratica eleganza. Difficile sottrarsi alla malìa del soprano ferrarese, autentica primadonna del palcoscenico e sublime interprete di quei capolavori meno autotrofi e simbioticamente legati a chi poi dà loro vita.
La suite Deità Silvane di Ottorino Respighi apre il concerto scaligero con evanescenti effluvi sonori che anticipano le ben più celebri Fontane di Roma. Immersa nella liquidità del pianoforte di Donald Sulzen, Anna Caterina Antonacci stimola la fantasia dell’ascoltatore, evoca immagini di ninfe e arcadie fantastiche, valorizza i madrigalismi del testo poetico e musicale con un canto languido che attinge alla delicatezza di una plasticità timbrica flessuosa e sensuale. Alla suggestione bucolica del primo quadro si contrappone la drammatica carnalità di Sopra un’aria antica, ancora di Respighi. L’intesa con Sulzen è eccezionale, il pianista americano asseconda l’interprete nella mutevolezza delle angoscianti accentazioni. Le dolorose agogiche, i rubati paralizzanti, le sfumature dinamiche vorticose e irruente sostengono adesso una lettura più intensa, coinvolta e coinvolgente, dispiegata in un canto screziato di colori, pregno di intenzioni, vibrante. I centri sono rotondi e perentori, le puntature assertive. La sinuosità della voce e dell’artista è chiave d’accesso alla poetica dell’Horizon Chimerique di Gabriel Fauré, una serie di acquerelli dal profumo marino che si riallacciano allo stile del pianismo impressionista francese. La Antonacci affresca la serie di liriche con torniture morbide e cangianti: eterea la filatura che chiude Diane, Séléné. Ironia e ricercatezza straripano nella Venezia di Reynaldo Hahn. Impossibile non sciogliersi all’ascolto di questa pittoresche cartoline che raccolgono, in cinque pezzi, la caratteristiche precipue della musica popolare italiana. Tra vocalizzi, barcarole e tarantelle disseminati di slanci lirici e irresistibili piazzate istrioniche volge dunque al termine al prima parte del recital.
L’abito non fa il monaco ma il costume fa l’artista e Anna Caterina Antonacci non può affrontare l’opera di Poulenc con un vestito turchese. Veste scura, apparecchio arancione. L’atmosfera si incupisce, il pianoforte proferisce, sottovoce, i primi inquietanti accordi. Squilla il telefono. Il soprano risponde e ci si ritrova immediatamente proiettati nel turbinio di una conflittualità interiore animosa, lancinante. La primadonna fa un passo indietro e la donna emerge in tutta la sua straziante fragilità. La carica scenica dell’Antonacci lascia esterrefatti, è l’interprete ideale di La voix humaine, le parole sono scolpite nell’irregolarità di un’architettura che rinuncia quasi completamente a una linea melodica evidente (eccetto per il valzer che abbraccia la confessione del suicidio). La versione per pianoforte è ancora più suggestiva e intima di quella per orchestra e Sulzen rende perfettamente la tensione emotiva di queste pagine dove la scrittura minimalista confligge quasi con la prorompenza drammaturgica. Si segue col fiato sospeso il concitato sviluppo narrativo, si partecipa al dramma della protagonista. Sembra irrispettoso applaudire alla fine.
«È difficile immaginare un bis dopo La voix humaine» confessa l’Antonacci, ma l’insaziabile pubblico si acquieta solo quando l’erotica Habanera, cantata a fior di labbro e con una miriade di provocanti venature,ha inizio. Tra le ovazioni più entusiaste il pubblico chiede altri bis, invano. Non si scampa al suo fascino: Anna Caterina Antonacci, fatale sirena ammaliatrice, incanta e rapisce chi naviga per i perigliosi flutti del teatro. Qual con lei s’ausa, rado sen parte.
foto Brescia Amisano