Un’ombra di Händel / All’ombra di Händel
di Francesco Lora
La produzione lombarda del Rinaldo si è conclusa (e afflosciata) al Teatro Fraschini di Pavia, mentre a pochi metri spiccava il volo verso Amsterdam un altro progetto ispirato a Händel: il Coro e Orchestra Ghislieri, diretto da Giulio Prandi, ha presentato al Concertgebouw il Dixit Dominus del Sàssone, nonché forbite pagine di Vivaldi, dell’Astorga e di Bononcini.
PAVIA-AMSTERDAM, 18 e 26 gennaio 2019 – Solleva constatare una meno timida presenza delle opere di Händel nei teatri italiani: per esempio mediante il Rinaldo circuitato tra il Ponchielli di Cremona, il Grande di Brescia, il Sociale di Como e il Fraschini di Pavia, e già recensito in queste pagine [leggi la recensione di Andrea Pedrotti da Brescia, 02/12/2018]. Otto recite spalmate larghe in due mesi, tra gli scorsi 23 novembre e 20 gennaio: lo spettacolo poteva maturare di settimana in settimana, ma pare invece essersi afflosciato nella noia di sé stesso. È il caso dell’allestimento con regìa di Jacopo Spirei, scene di Mauro Tinti e costumi di Silvia Aymonino, ricco (talvolta sovrassaturo) di idee (talvolta pur buone) ma lontano dal pervenire a una sintesi della quale riferire con interesse: ciò, appunto, non a Cremona e al debutto della produzione, ma a Pavia e all’ormai decisiva resa dei conti. È il caso anche della lettura musicale presieduta da Ottavio Dantone, con al séguito la sua celebrata orchestra barocca Accademia Bizantina. Si apprezza la volontà di evidenziare in ciascuna aria il metro di danza che spesso le sta a monte, e che è un marchio di fabbrica del giovane Händel passato per l’Italia ma fedele all’uso tedesco; ma si resta di sasso davanti all’ora abbondante di musica spensieratamente falciata via, sino alla deformazione delle studiate logiche strutturali sia nel libretto sia nella partitura; sfugge infine quanto, come e se sia stata tentata la coordinazione di una compagnia di canto piuttosto disomogenea, ove ciascun artista sembra portare avanti una storia a sé tra il disinteresse del contesto (o il suo rammarico).
Poco adeguata alla tessitura contraltile, alle vigorose agilità, alla fisicità en travesti e alla prosodia italiana della parte protagonistica è la pur volonterosa Delphine Galou: un miglior terreno per lei, nel repertorio operistico händeliano, sarebbe quello non dei primi uomini, ma delle seconde donne. Disordinato e discontinuo, come Goffredo, il controtenore Raffaele Pe; gli gioverebbe una più chiara scelta degli obiettivi: innanzitutto se operare come soprano o come contralto (strattonata nella mostra dei due registri, la coperta vocale già minaccia strappi). Pericoloso è l’affidamento della parte baritonale di Argante a un basso profondo come Luigi De Donato: però egli sa il fatto suo e ne viene ugualmente a capo, con vigore d’accento e non diminuita spigliatezza scenica. La prima donna Armida tocca ad Anna Maria Sarra: giovane, prudente, impegnata, sciolta nei recitativi che mandano nel pallone le colleghe straniere presuntuose di specialismo, incassa una figura lusinghiera. E la seconda donna Almirena (o prima donna paritetica?) tocca a Francesca Aspromonte, la quale è il solito consolante capolavoro di comunicativa come di erudizione, dalla duttilità dei mezzi alla freschezza del porgere, e dalla cura della pronunzia al gusto delle variazioni: guarda un po’, a seguire lei con occhi e orecchi si direbbe che il disparato eclettismo circostante possa superare il conflitto di linguaggi e godere un coerente punto d’incontro. Solido il comprimariato: Federico Benetti come Mago Cristiano e Anna Bessi come Donna. Mentre è inutile chiedere degli altri personaggi e dei relativi interpreti: sono spariti con i tagli.
Fatto sta che il freddo di gennaio toglieva a chi scrive la voglia di bighellonare per la città. Prima che inizi il Rinaldo, si va allora a spiare il lavoro di chi a Pavia ha più di tutti le mani in pasta nella pratica del repertorio musicale sei-settecentesco: il Coro e Orchestra Ghislieri, cresciuti in seno al locale Collegio Ghislieri e affidati al giovane direttore Giulio Prandi. Nella loro aula magna stanno provando i programmi attesi il 23 gennaio al Valletta International Baroque Festival (un Dixit Dominus di Jommelli e una Messa in Re maggiore di Pergolesi) e tre giorni dopo al Concertgebouw di Amsterdam (per la seguitissima stagione di musica antica promossa dalla radio olandese). Sono una realtà rara e preziosa nel contesto italiano, e il loro valore si impone nel mercato internazionale: difficilissimo trovare una compagine corale e una strumentale, nell’àmbito della musica dell’età del basso continuo, che chez nous siano stabili e si compenetrino nel lavoro quotidiano; difficilissimo trovare chi, come esse, predichi di preferenza la punta di diamante tra i generi musicali di quell’epoca, vale a dire il repertorio sacro, accollandosi ricerche e riscoperte; difficilissimo trovare chi opponga con rigore d’approccio e naturalezza di stile, al malcostume pseudofilologico oggi propagato da certa Francia e certa Germania, il giusto idiomatismo italiano. Anche quest’ultimo è un merito dei complessi pavesi: e può avere un interesse particolare andarlo a toccare con mano nella capitale dei Paesi Bassi, ossia la nazione ove è nata la prima volontà di esecuzioni musicali storicamente informate.
Detto fatto, il critico partito per un Rinaldo è in volo anche per Amsterdam. “All’ombra di Händel”, promette il programma presentato dai ghisleriani. Infatti al Concertgebouw si ascoltano la Sonata “Al santo sepolcro” di Vivaldi e lo Stabat mater del Barone d’Astorga: pagine liturgicamente imparentate di compositori che con il Sàssone condivisero l’uno una piazza strategica come Venezia, l’altro un certo cosmopolitismo. Forbitissima la terza proposta: l’Anthem composto nel 1722 da Giovanni Bononcini, allora diretto concorrente di Händel, per i funerali londinesi di John Churchill, creato duca di Marlborough da Guglielmo III d’Orange e dunque da colui che era stato nel contempo re d’Inghilterra e Statolder d’Olanda; una pagina che dimostra l’insospettata abilità del modenese a declinare il proprio vocabolario musicale padano secondo la maniera britannica di Blow e Purcell. Suo contraltare diviene allora il vertiginoso Dixit Dominus composto da Händel secondo lo stile romano, nello stesso 1707 del brano dell’Astorga: ed ecco chiuso il cerchio. Ciò che ancor più conta, ecco un concerto tutto improntato allo studio dei testi anziché alla loro mercificazione; ecco un’orchestra ove ogni gesto fraseologico dimostra un pensiero lucido ed ecco un coro che è un puro giardino di smalto, volume e colori all’italiana; ecco il franco canto solistico di Silvia Frigato, Maria José Lo Monaco e Raffaele Giordani in particolare, il tutto sotto la guida puntigliosa di Prandi nello spirito di un’autentica squadra. Ecco l’applaudita risposta dei nostri musicisti-filologi alla terra che, mezzo secolo fa, piantò il seme.