Nebbia in Valpadana
di Alberto Ponti
Al pari del primo, il secondo cast della produzione del Regio si mette in luce per le qualità musicali. Intrigante ma farraginoso l’esordio di John Turturro come regista d’opera.
Leggi anche la recensione della prima con Alvarez, Pop e Iniesta, a cura di Antonino Trotta: Torino, Rigoletto, 06/02/2019
TORINO, 14 febbraio 2019 - Un ambiente nebbioso, fumoso, padano fino al midollo (l’azione si svolge pur sempre a Mantova) ad abbracciare palazzi délabré, bianche statue scurite dagli anni e dall’incuria, stamberghe e osterie che nelle sere d’autunno è ancor oggi possibile incontrare in certi borghi isolati e abitati da poche anime sparsi per l’immensa pianura, retrodatati tuttavia nelle intenzioni a un ancien régime alquanto immaginario, talvolta incoerente, improntato a un sincretismo pletorico e dovizioso, col risultato di far troneggiare in bella vista, nella povera cameretta da reclusa di Gilda, un imponente letto in stile impero.
E’ questa la scelta di John Turturro per il suo debutto nella regia d’opera con Rigoletto al Teatro Regio di Torino, in coproduzione con Teatro Massimo di Palermo, Shaanxi opera House di Xi’an e Opéra Royal de Wallonie-Liège. Per carità, l’idea del dramma c’è tutta, grazie anche alle scene di Francesco Frigeri, agli splendidi e tetri costumi di Marco Piemontese, alle parche luci di Alessandro Carletti manovrate da Ludovico Gobbi, improvvise e abbaglianti, con trovata originale e apprezzabile, solo al momento dell’entrata inziale e del trapasso all’epilogo della tormentata figlia del buffone, che si adagia con le sue gambe sul sacco fatale dopo un ultimo ingresso in palcoscenico, visione o fantasma proveniente da chissà dove, davanti agli occhi del genitore attonito quanto gli spettatori. E che dire del macchinoso finale del primo atto, con Rigoletto intento a dimenarsi ben distante dai cortigiani e dall’azione, mentre della scala che dovrebbe manovrare non si vede nemmeno l’ombra? Lasciando da parte le licenze più o meno poetiche, e di conseguenza opinabili, a colpire nella lettura del talentuoso cineasta italo-americano è però l’introduzione, nel contesto del nodoso realismo verdiano, di un elemento soprannaturale, fiabesco e fantastico, caratteri a cui l’opera italiana, a differenza del teatro fiorito a nord delle Alpi, indulge pochissimo per definizione (lo stesso Verdi, con sublime colpo di genio, fece una vera eccezione col solo Macbeth, non per niente su un soggetto di Shakespeare ispirato da antiche leggende anglosassoni poi codificate nella Daemonologie di Re James Stewart).
Così, tra danze sul proscenio al momento di "Cortigiani, vil razza dannata", tra una selva di sedie giganti e minute in primo piano nella locanda di Maddalena, tra i desolati e finalmente suggestivi alberi spogli della conclusione, lo spettacolo procede spedito, a volte fin troppo per la direzione impetuosa e implacabile di Renato Palumbo. Del podio non si può dire che manchi di tecnica o di talento, dal momento che lo stacco dei tempi è netto e preciso pure a fronte delle complicazioni create dalla travolgente velocità, ma con squarci di autentica bellezza come nel passaggio repentino dalla scena "Un dì, se ben rammentomi" all’inarrivabile quartetto Bella figlia dell’amore, generato come dal nulla per apparizione divina. E sappiamo quanto questo Verdi, al pari di Mozart, non perdoni nella sua strumentazione tumultuosa ma cristallina la minima incertezza o sfasatura agogica. Un plauso notevole se lo meritano quindi i complessi del Regio per aver conservato ben saldo il bando della matassa in un titolo tanto più insidioso quanto più sottovalutato nella routine di un repertorio solo all’apparenza senza rischi.
L’effetto a posteriori rimane, a onor del vero, di avere ammirato un magnifico paesaggio musicale da un treno in corsa. Palumbo, gesto scarno ed efficace, pare un Julien Sorel della bacchetta: non ha dubbi sul senso ultimo della vicenda e mantiene un’invidiabile visione d’insieme tra orchestra, coro (istruito da Andrea Secchi e ottimo come da tradizione) e cantanti ma tende a sottovalutare alcuni dettagli e, nell’arte come nella vita, sostiene Stendhal proprio in Le Rouge et le Noir, ‘gli abili badano soprattutto ai particolari’. I ricami del flauto e dei violini di "Lassù in cielo", il guizzo dell’ottavino ad annunciare la tempesta, le strappate degli archi trasmettono la sensazione di un incanto disarmante ma troppo presto svanito, travolto dal flusso degli eventi che non lascia spazio a più meditati abbandoni.
Nonostante due lievi indisposizioni (annunciata per la protagonista femminile, ex abrupto per Rivas, tanto da costringere a un breve e non previsto intervallo tra secondo e terzo atto: su il cappello per sacrificio e professionalità dimostrata), la recita del 14 febbraio conquista per varietà vocale gli applausi di una platea gremita.
Il baritono originario della Mongolia Amartuvshin Enkhbat è un Rigoletto passionale e profondo, di estensione generosa e variegata nel colore, non esente da una giovanile acerbità nell’emissione, ottima pronuncia, impatto possente ma a tratti percorso da un’evidente ingessatura del personaggio. Il materiale su cui lavorare c’è eccome ed è ottimo, con la speranza che egli possa nel tempo approfondire le minime sfaccettature di un ruolo senza dubbio congeniale. Gilda Fiume (nomen omen!) ricopre la parte della sua omonima con grazia delicata di attrice e cantante. La portata non immensa della voce di soprano è compensata da naturali, morbide risonanze e da una tecnica di eccellente livello, in grado di superare con deliziosa agilità gli acuti di "Caro nome", distillando nondimeno gli accenti più tragici e inquieti nel grande duetto con il padre del primo atto" Deh, non parlare al misero" seguito dall’abbandono estatico e innocente, prova non scontata di estrema versatilità da genuina donna di teatro, della successiva scena col Duca "È il sol dell’anima".
Iván Ayón Rivas, tenore peruviano, possiede la baldanza e l’esuberante garrulità del Duca di Mantova, in una prestazione forse penalizzata dalla non perfetta forma, palese, nonostante la pausa ristoratrice, soprattutto nel terzo atto. Certe asprezze nel fraseggio vanno smussate ma a venticinque anni non si può che migliorare e gli siamo debitori di un’intensa interpretazione, premiata dalle ovazioni, della scena e aria "Ella mi fu rapita!.. Parmi veder le lagrime". Sparafucile, impersonato da Romano Dal Zovo è una piacevolissima sorpresa, a proprio agio fin dalla sortita ("Quel vecchio maledivami!", duetto con Rigoletto). Il timbro di basso è agile e drammatico insieme e tiene alto l’onore della compagnia, inserendosi con marcata ma nitida energia nell'ultimo atto e nel terzetto che precede il culmine funesto della storia.
Buona nel complesso la performance dei comprimari, a cominciare da Maddalena (Carmen Topciu), Giovanna (Carlotta Vichi), conte di Monterone (Alessio Verna), Marullo (Paolo Maria Orecchia), conte di Ceprano (Federico Benetti) per terminare con il Matteo Borsa di Luca Casalin, la contessa di Ivana Cravero, l’usciere di Riccardo Mattiotto e il paggio di Ashley Milanese.
Nel nome di Verdi, gloria per tutti.
foto Edoardo Piva