L’Agnese che non ti aspetti
di Alberto Ponti
Il dramma di Ferdinando Paer, in prima rappresentazione moderna, sorprende, sotto l’attenta guida di Diego Fasolis, per freschezza melodica e profondità espressiva
Opera di transizione. Musicista di transizione. La locuzione piace, anche se il significato tende quasi sempre a sfuggire. Senza scomodare il tagliente pensiero di Carlo Parmentola su La forza del destino, spesso indicata come tale all’interno della produzione verdiana (‘Vorrei proprio vedere Verdi metter mano ad un nuovo lavoro pensando: - Adesso scrivo un’opera di transizione’), l’etichetta rimane applicata, per stanca consuetudine, a quella generazione di operisti italiani nativi o adottivi vissuta tra gli ultimi decenni del Settecento e i primi dell’Ottocento: Cherubini, Mayr, Paer, Spontini su tutti. Nati tra il 1760 e il 1774 essi furono coetanei di un Beethoven, che nessuno tra l’altro si sognerebbe mai di definire a bella posta autore ‘di transizione’. Appurato che la circostanza non ha a che vedere con l’epoca particolare (ogni tempo e ogni arte portano in sé influssi del passato e germi del futuro) la considerazione rimane una soltanto: esistono in musica pochissimi geni assoluti, un ristretto numero di grandi compositori, ivi compreso il gruppetto sopra citato, e una pletora di mediocri mestieranti. Se la storia della sette note si dovesse fare solo ragionando sui massimi capolavori potremmo andare seduta stante tutti a casa: nessuna pretesa di aggiungere riflessioni risolutive ai fiumi di inchiostro già versati (Gianandrea Gavazzeni titolò con ingegno provocatorio un suo scritto Non eseguire Beethoven). È allora chiaro che tutto il resto può comodamente restare nell’ombra, salvo resurrezioni occasionali tosto seguite da fulminee risepolture, senza mai sfuggire all’ambito di sbrigative citazioni sui manuali dietro cartellini di comodo: di transizione, epigono, pre-qualcosa, post-qualcos’altro.
Arriviamo così ad Agnese (1809) di Ferdinando Paer (1771-1839), con gran merito e coraggio portata per la prima volta sulla scena in epoca moderna, all’interno della stagione del Teatro Regio di Torino. Nato per una rappresentazione di dilettanti all’interno del teatro privato della villa Scotti presso Parma, il titolo ebbe una rapida diffusione in tutta Europa, rimanendo assai popolare fino alla metà del XIX secolo, per poi eclissarsi nell’oblio al pari degli altri lavori del suo autore. L’operazione culturale condotta sul podio da Diego Fasolis, artefice della riscoperta di questa partitura con l’esecuzione in forma di concerto a Lugano una decina di anni fa, si avvale della puntuale edizione critica di Giuliano Castellani, recuperando per le recite subalpine i brani aggiunti per le riprese di Parigi del 1819 e 1824, con il duetto tra la protagonista ed Ernesto creato per Giuditta Pasta. Il direttore svizzero cesella con infinito, traboccante e tangibile amore, accoppiato a una visione lucidissima e ponderata, le trame raffinate di un’orchestra che in nulla cede all’inventiva timbrica di ben più celebrati contemporanei di Paer. Nel clarinetto concertante delle arie ‘Cielo, pietoso cielo’ di Ernesto e nella preghiera ‘Padre, il ciel mi rendi’ di Agnese si agitano movenze weberiane mentre nella romanza finale, cantata sempre dall’eroina femminile, l’accompagnamento dell’arpa sola colpì un ascoltatore del calibro di Chopin. Fasolis padroneggia magistralmente le dinamiche di un organico ridotto facendo emergere in filigrana ogni linea e controcanto melodico anche secondario, attento a non prevaricare mai le voci e all’occorrenza capace di far scaturire dallo strumentale un effetto grandioso come nella delizia Sturm und Drang del temporale che apre l’atto primo.
Ottimo il cast prescelto per l’evento: Agnese, impersonata dal soprano spagnolo María Rey-Joly, dimostra una tenuta del canto energica ed esemplare, appena penalizzata da una pronuncia italiana perfettibile e da una lieve increspatura metallica verso il registro acuto, ma movimentata nel fraseggio, agile negli staccati più ardui, morbida e felpata nel legato larmoyant di un patetismo un po’ di maniera e nondimeno sincero ed espansivo, premiato dagli applausi a scena aperta dopo la grande aria del secondo atto ‘Date solo, o Ciel clemente’. Il tenore Edgardo Rocha ricopre con eleganza la controparte di Ernesto, marito dapprima fedifrago e poi deciso nel ricercare il perdono dell’amata. Il suo canto, meno potente, è aggraziato, luminoso e sicuro nell’emissione e raggiunge i suoi momenti migliori per la squisitezza nell’espressione e il perfetto amalgama con l’accompagnamento orchestrale, oltre che nella citata romanza con clarinetto, nel cantabile ‘Ah! Se il fato, oh Dio! Non frena’ e nel duetto con Agnese ‘Qual fiero contrasto’. La vicenda è assai lineare nella trama: il vecchio padre Uberto, ruolo ricoperto dal baritono Markus Werba, crede che la figlia, fuggita contro la propria volontà con Ernesto, sia morta ed è ricoverato per la sua pazzia in un ospedale psichiatrico. Il tema della follia, tanto caro alla nascente generazione romantica, è qui declinato in un melos scarno, con l’ipnotico reiterarsi lungo tutta l’opera del distico ‘La figlia mio spirò/fra queste braccia’, privo di slanci lirici eppure destinato ad espandersi in una pagina di tragica intensità quale la scena ‘Agnese, io ti perdei’ in cui il timbro rotondo e aristocratico di Werba si invera in un ritratto a tutto tondo dalle mille sfumature emotive. Attraverso l’intervento di alcune figure tipiche della tradizione buffa e tali da giustificare il titolo di dramma semiserio, al termine della storia Uberto riacquisterà la ragione, benedicendo la rinnovata unione di Agnese col marito.
Il regista Leo Muscato firma un allestimento leggero, ironico, sognante, articolato su di uno scenario a blocchi mobili che riproducono a grandezza abnorme scatole e latte di medicamenti inizio Novecento: all’apertura stupiscono celando all’interno, al modo di curatissime wunderkammer, gli ambienti tratteggiati nel libretto di Luigi Buonavoglia. I costumi di Silvia Aymonino, le scene di Federica Parolini, le luci di Alessandro Verazzi assecondano con grazia, gusto e precisione l’originale intuizione registica che ha il pregio di creare una logicità drammaturgica nei due finali d’atto dove il meccanismo musicale di Paer sembra cedere talvolta il passo in favore di una semplice successione di numeri slegata da un’interna coerenza costruttiva.
Trovano dunque momenti di gloria tutti gli altri personaggi, a cominciare da Don Pasquale, intendente del manicomio, del sagace e arguto Filippo Morace, basso-baritono ben registrato, addirittura incontenibile nella cavatina ‘Bella cosa è l’esser padre di un’Lamabile figliuola’. Seguono a ruota la spigliata e croccante Carlotta, figlia del precedente (Lucia Cirillo, mezzosoprano), la sua cameriera Vespina (Giulia Della Peruta, soprano) carica di una brillante verve comica, il protomedico Don Girolamo dello squillante tenore Andrea Giovannini e il custode dei pazzi impersonato dal basso Federico Benetti. A coronare la serata, il coro del Teatro Regio istruito da Andrea Secchi si manifesta una volta di più duttile e preciso negli interventi.
Pubblico non numeroso, come accade purtroppo spesso per un lavoro non di repertorio, ma entusiasta di non essersi perduto la messinscena di un autentico gioiello che, pur non potendo competere con i traguardi del coevo Rossini, dimostra quanti spartiti di valore si siano affastellati nel corso dei secoli in archivi e biblioteche. La lodevole operazione torinese ci ricorda che l’opera è anche questo.