Le voci di Hoffmann
di Luigi Raso
È soprattutto l'eccellente cast vocale a determinare il successo del capolavoro di Offenbach al Teatro di San Carlo.
NAPOLI, 17 marzo 2019 - Arriva dall’Opéra di Monte-Carlo, città legata alla tormentata genesi e ricostruzione della partitura di Les contes d’Hoffmann, la produzione firmata da Jean-Louis Grinda e riproposta al San Carlo, a ventuno anni dall’ultima rappresentazione, per celebrare il bicentenario della nascita (20 giugno 1819) di Jacques (Jakob) Offenbach, figlio di un modesto cantore della Sinagoga di Colonia, scomparso nell’ottobre del 1880, pochi mesi prima di vedere rappresentata, il 10 febbraio 1881, la sua opera all’Opéra-Comique di Parigi. All’Opèra di Monte-Carlo, poi, l’opera subì una delle sue tante modifiche e orchestrazioni e furono aggiunti l’aria di Dapertutto “Scintille, diamant” e il sestetto, evidentemente apocrifi, anche se basati su musiche di Offenbach.
Les contes d’Hoffmann, dichiara il regista Jean-Louis Grinda, è un’opera che ci parla di amore, sesso, gioco, crimini e della condizione dell’Artista, del talento di Hoffmann; queste tematiche, pur nella corretta e godibile narrazione della trama, appaiono però poco approfondite.
Su un impianto scenico che resta sostanzialmente identico nel corso dell’opera, vengono innestati, dopo il prologo, i tre atti dell’opera e l’epilogo finale: automi appesi nel primo atto, ombre cinesi e un pianoforte per narrarci la triste storia di Antonia in una Monaco evocata dal richiamo delle sue architetture, un pavimento lucido e dell’acqua riflessa per alludere a Venezia. È un allestimento nato per le ridotte dimensioni della Salle Garnier monegasca, il cui interno, visto dal palcoscenico, fa da sfondo al Prologo dell’opera.
Intorno a Hoffmann, ad ascoltare i suoi racconti, il coro, seduto e con boccali di birra in mano: lo sfortunato poeta diventa, pertanto, il punto di fuga dell’intero allestimento.
I costumi ottocenteschi, disegnati da David Belugou, eleganti e variopinti, risaltano anche grazie alle scenografie, dal colore tendenzialmente scuro, e sulle quali si stagliano originali giochi d’ombre cinesi che esaltano la fisicità dei personaggi. Infatti, le scene e le luci di Laurent Castaingt sono perfettamente funzionali a questa regia che racconta con garbo e gusto gli avvenimenti, gli amori sfortunati di Hoffmann, evitando di cedere alla tentazione di scandagliare gli aspetti psicologici, simbolici e fantastici presenti nei racconti. Riducendo l’utilizzo di orpelli scenografici, si vogliono così esaltare le dinamiche tra i personaggi: un’operazione riuscita, anche grazie a un cast di buoni attori, sicché la regia risulta, in sostanza, godibile, preparata con cura, ma senza aggiungere nessuna lettura innovativa al capolavoro di Offenbach.
È l’aspetto musicale che riserva, invece, maggiori spunti di interesse.
La direzione di Pinchas Steinberg è corretta, ma improntata a un’eccessiva uniformità nel passo, che a tratti comprime troppo gli squarci lirici e cantabili dell’opera. Un’assenza di fantasia che si manifesta anche nel prosciugamento dei colori orchestrali e in eccessiva metronomicità.
La distribuzione dei volumi sonori tra orchestra e palcoscenico, salvo qualche episodio iniziale, è tendenzialmente ben calibrata. Osborn avrebbe meritato maggiore cura nell’accompagnamento della Leggenda di Kleinzach, soprattutto quando il canto si apre sull’arioso di “Ah! Sa figure était charmante!... Je la vois, belle comme le jour où, courant après elle…” passando al registro canzonatorio iniziale a quello seriamente appassionato.
Il suono dell’orchestra del san Carlo - nell’abituale ottima forma - è pulito e tornito; intenso e duttile quello delle prime parti dei violoncelli, flauti e clarinetti negli assoli. Il coro, diretto da Gea Garatti Ansini, conferma anche con questa produzione l’eccellente livello sul quale si è saldamente attestato, sia che canti nella formazione maschile del Prologo, sia in quella mista; ha suono compatto e deciso quando è in scena, languido ed evanescente da dietro le quinte.
Il cast vocale, molto ben assortito, è il maggiore pregio della produzione.
L’Hoffmann di John Osborn è una splendida lezione di stile e di una credibile interpretazione. La linea di canto è sostenuta con eleganza, il legato e il fraseggio estremamente curati; gli acuti sempre ben preparati e perfettamente centrati, proiettati e squillanti e perfettamente in maschera (non si può cantare e incidere, come ha fatto Osborn, l’Arnold rossiniano senza avere il dominio assoluto sul regno degli acuti!). Il timbro suggestivo e una emissione duttile e variegata consentono al tenore statunitense di dar vita a un Hoffmann malinconico, eroico, appassionato, sconfitto, grazie anche a una presenza scenica teatralmente efficace, convincente dal prologo all’epilogo. La frequentazione del repertorio belcantistico gli ha consegnato le chiavi per una lettura interessante del personaggio di Hoffmann, del quale si candida a pieno titolo a diventare un interprete di riferimento.
Maria Grazia Schiavo è una Olympia perfettamente a proprio agio nella tessitura siderale della sua parte: le note ci sono tutte, l’intonazione è perfetta, buona la padronanza scenica. Qualche acuto appare eccessivamente schiacciato, ma il risultato complessivo della sua prova è del tutto convincente.
L’Antonia di Nino Machaidze è un condensato di passionalità, nostalgia e rimpianto. Il timbro è striato da seducenti venature brunite, corposo nell’intera tessitura, il fraseggio analitico, l'emissione perfetta e la linea di canto perfettamente sostenuta: questi sono gli ingredienti che consentono alla Machaidze - al debutto come nella parte - di delineare una cantante ammalata, passionale, palpitante e carnale, lontana da fredde idealità, attenta alla cura dei dettagli canori quanto delle espressioni della mimica facciale. L’emissione, infatti, è alleggerita e trasognata in “C’est une chanson d’amour, qui s’envole...” per poi diventare decisa, intensa e coinvolgente nel terzetto con la voce della madre e Miracle: nel finale dell’atto, il confronto tra la madre e Antonia regala forti emozioni. Un’interpretazione, quella di Nino Machaidze, convincente, già matura per un debutto superato a pieni voti.
Qualche perplessità per Josè Maria Lo Monaco nelle vesti della cortigiana Giulietta: il timbro è sicuramente suggestivo e la parte è cantata con correttezza, ma si notano delle difficoltà nel registro acuto. L’interpretazione avrebbe meritato una maggiore accentuazione della fascinazione seduttiva del personaggio.
Se, come sostiene Charles Baudelaire, “il più bel trucco del Diavolo sta nel convincerci che non esiste”, Alex Esposito, nell’interpretare i quattro ruoli del consigliere municipale Lindorf, dell’inventore Coppélius, del dottor Miracle e dello stregone Dapertutto, è la trasposizione canora della massima del poeta francese: i suoi personaggi, infatti, sono sottilmente e subdolamente mefistofelici, sono diabolici ma tendono a non apparirlo.
L’elemento demoniaco - che si oppone a Hoffmann - è presente nell’intera opera: dell’aleggiare della presenza dell’elemento maligno Esposito dà una rappresentazione sottilmente plastica, grazie a un resa scenica e vocale convincente, piegando la voce tanto a emissioni sussurrate e melliflue, quanto a sogghigni demoniaci e a cupe e poderose declamazioni. Ciò che Alex Esposito non perde mai di vista, nel declinare lo spirito sulfureo nei quattro personaggi, è la linea di canto, sempre elegante, tornita da un fraseggio intelligente e analitico.
Annalisa Stroppa è un Nicklausse/Musa simpatico, recitato e cantato bene, con voce dal bel colore, perfettamente in sintonia con l'amico Hoffmann.
Autorevole scenicamente e vocalmente il Crespel, liutaio e padre di Antonia, di Roberto Abbondanza, la cui vocalità fa emergere efficacemente il dolore per la malattia della figlia. Emana simpatia e verve lo Spalanzani di Enrico Cossutta. Bene anche la Stella, sintesi ideale di Olympia, Antonia e Giulietta, di Michela Antenucci.
I ruoli secondari, essenziali per la riuscita di un’opera complessa e articolata in tableaux vivants, apparentemente disarticolati, sono tutti degni di nota, a cominciare da Andrès/ Cochenille/Frantz/Pittichinaccio di Orlando Polidoro, per proseguire con l’Hermann/Schlémil di Fabio Zagarella, il Luther di Italo Proferisce e, per finire, con La mère d'Antonia di Federica Giansanti, che contribuisce a creare, insieme alla Machaidze, il giusto clima emotivo nel finale dell’atto II.
Al termine grande successo per tutti, con apprezzamenti più intesi per John Osborn, Maria Grazia Schiavo, Nino Machaidze e Alex Esposito.
Qualche isolato dissenso è stato manifestato all’indirizzo del regista Jean-Louis Grinda.
Il San Carlo ha dedicato questa produzione di Les contes d’Hoffmann a due anniversari: al ventennale dalla scomparsa (10 settembre 1999) di Alfredo Kraus, per anni - fino all’ultima apparizione nei panni di Werther nel 1996 - beniamino del pubblico del San Carlo, e al centenario della nascita (10 maggio 1919) di Peter Maag, che nel giugno del 1997 diresse una memorabile edizione del capolavoro di Offenbach.
Entrambi, se stasera fossero stati in sala con noi, avrebbero molto probabilmente apprezzato lo spettacolo.
foto Francesco Squeglia