La febbre sale, il risultato delude
di Irina Sorokina
Non sorprende, ma delude, l'ultima Traviata firmata da Franco Zeffirelli all'Arena di Verona e vien da chiedersi quale possa essere il futuro per questo modo di intendere l'opera, tanto più che anche il cast e la concertazione non si può dire abbiano brillato e reso giustizia al capolavoro verdiano.
VERONA, 28 giugno 2019 - È stato impossibile vivere serenamente l’attesa della nuova Traviata firmata da Franco Zeffirelli che apriva l’Arena di Verona l’Opera Festival dell’anno in corso. Per l’età del Maître, per l’amore che da sempre ha nutrito per questo titolo verdiano, dedicandogli circa sessant’anni di lavoro, per il suo glorioso passato in Arena. L’attesa aveva qualcosa di febbrile e la febbre è salita alle stelle quando è arrivata la notizia della morte di Franco Zeffirelli, che si è spento all’età di novantasei anni pochi giorni prima che a Verona Daniel Oren levasse la bacchetta per iniziare l’opera. Il semplice buon senso suggeriva che fosse difficilissimo se non impossibile che sul palcoscenico del più grande teatro all’aperto del mondo apparisse qualcosa mai visto prima. L’anziano Maître già entrato nella storia e nella leggenda, da sempre lottava contro la modernità e la “nuova” Traviata non poteva essere che la vecchia Traviata, cioè uno scintillante e sovraffollato kolossal, un altro esempio di spettacolo che Zeffirelli riteneva adatto all’Arena di Verona, come già aveva fatto con Carmen, Il trovatore, Aida, Madama Butterfly, Don Giovanni, Turandot.
I suoi discorsi contro la modernizzazione del teatro lirico e contro gli eccessi del Regie Theater a volte erano sensati, a volte ridicoli. Nel giorno d’oggi è impossibile ridurre il teatro d’opera ai modelli zeffirelliani; il mondo è già cambiato e sta cambiando a velocità vertiginosa, e con lui sta cambiando il teatro d’opera. Ovviamente, Alfredo che taglia le zucchine mentre canta "De’ miei bollenti spiriti" o la povera Amina deflorata dal conte Rodolfo mentre intona "Ah non credea mirarti" possono dare non poco fastidio, ma la musica e la volontà dell’autore si possono rispettare benissimo con soluzioni innovative che danno pane al cervello e allo spirito. Se no, saremmo condannati per sempre a tradizioni e abitudini della vecchia scuola e, con esse, a una noia infinita.
Quindi, la speranza che questa Traviata ci ravvivasse un po’ non c’era. Si aspettava un altro kolossal in perfetto stile zeffirelliano con tutte le sue caratteristiche: scenografie gigantesche, lussuose e troppo dettagliate, abbondanza di accessori, sovraffollamento del palcoscenico che supera ogni immaginazione, gestualità degli interpreti decisamente antiquate. Tutto questo in aperto contrasto con la natura del capolavoro verdiano, che è un’opera intima, centrata su soli tre personaggi, raffinata e sofferta.
Non ci si riesce a definire con convinzione se questo nuovo vecchio kolossal superi quelli precedenti o se è più o meno lo stesso. Crediamo che La traviata sia più o meno la stessa cosa, anche se la sua scenografia è davvero troppo grandiosa. Parole d’ammirazione vanno ai laboratori dell’Arena di Verona e ai loro lavoratori che hanno costruito sull’enorme palcoscenico una struttura a due piani, una specie di casa delle bambole, altrettanto enorme, in stile Secondo Impero, curando con amore ogni minimo dettaglio. È stato impossibile evitare numerosi occhi spalancati e sospiri meravigliati alla vista della scena. Nel primo quadro del secondo atto la struttura è trasformata in una casa di campagna elegantissima per poi portare lo spettatore nel salotto di Flora, e alla fine farlo ritornare nella casa di Violetta con la sua folgorante e esagerata bellezza che evidentemente sa di kitsch. Pur sempre dichiarando la propria fedeltà al racconto d’autore, come ha fatto il regista fiorentino a far morire Violetta nel solito lusso, se la povera ragazza, secondo Verdi, moriva povera ed abbandonata da tutti? La venerazione del lusso stava proprio nella sua natura, e l’esagerazione in tutto era irrefrenabile.
Per i costumi, numerosissimi, Zeffirelli si è avvalso della collaborazione di Maurizio Millenotti, autore di abiti sontuosi. Le luci sapienti sono di Paolo Mazzon.
Per quanto riguarda la regia, è davvero molto difficile definirla tale. Sarebbe giusto applicare a quel che abbiamo visto sul palcoscenico areniano, una breve e immortale frase: il regista, se c’era, dormiva. Molto spesso significa mancanza delle idee efficaci, nella caso della Traviata veronese significa che della vera e propria regia non si poteva trattare, perché il Maître non era mai venuto a Verona vista l’età avanzata e le condizioni di salute precarie.In sua vece ha agito Stefano Trespidi, il vicedirettore artistico dell’Arena di Verona, una persona che vanta un’esperienza sconfinata. Ma fornire annotazioni a un fedele collaboratore e il lavoro, pure devoto e scrupoloso, di quest’ultimo non costituiscono una vera regia. La nuova Traviata risulta così piuttosto anonima, simile a mille altre Traviate. A proposito, il nome di Stefano Trespidi non figura nella locandina, cosa che consideriamo ingiusta. Vanno nominati anche il regista collaboratore Massimo Luconi, lo scenografo collaboratore Carlo Centolavigna, l'assistente ai costumi Edoardo Russo.
Il cast ingaggiato per questa Traviata non è particolarmente brillante, sia per le qualità vocali degli interpreti sia per la mancanza delle vere personalità, fatto che desta parecchio stupore. Hans Gal nel suo libro Drei Meister, Drai Welten dice di Violetta che la distingue una bellezza particolare, trasparente. Come non dargli ragione? Purtroppo, il soprano polacco Aleksandra Kurzak non ha la personalità così ben definita, qualcosa che la rende indimenticabile e la imprima nei cuori degli spettatori. È una buona artista, ma per un personaggio così speciale ci vuole qualcosa in più. Questo “qualcosa”, purtroppo, manca, e il pubblico, pur sforzandosi di amare questa Violetta, non riesce a farlo. La Kurzak sfoggia un buono strumento, soprattutto per quanto riguarda il centro, di timbro gradevole, ma la sua prestazione rivela la disomogeneità dei registri; salendo, la voce diventa priva di colore, fraglie e quasi secca. Non sono mancati i problemi d’intonazione, piuttosto fastidiosi. Si è avuta l’impressione che Violetta non sia un personaggio perfettamente adatto al soprano polacco e che in un altro tipo di repertorio avrebbe figurato molto meglio.
Ancora più dubbi desta la partecipazione del tenore Pavel Petrov nei panni di Alfredo, che appare debole e insignificante, sia sul versante vocale sia su quello teatrale. La voce che non ha il volume sufficiente per gli spaventosi spazi areniani (nel primo atto si sente pochissimo e a tratti sparisce), risulta un po’ belante e l’atteggiamento è evidentemente insicuro.
Nel ruolo di Giorgio Germont, il veterano Leo Nucci, com’era facile da aspettarsi, domina il resto del cast simile al vecchio leone che comanda i suoi “sudditi”. Il baritono emiliano, ormai la leggenda vivente, non ha certo la voce di un tempo e quel che ne rimane a volta suona non proprio equilibrato e a tratti sgradevole, tuttavia, se il mitico artista non è più in grado di dare lezioni di canto, può insegnare recitazione.
La compagnia di canto viene completata da Carlo Bosi (Gaston de Letoriéres), Gianfranco Montresor (barone Douphol), Daniel Giulianini (marchese d’Obigny), Romano Dal Zovo (dottore Grenvil), Stefano Rinaldi Miliani (Domestico/Commissionario) e due grandi artisti come Daniela Mazzucato e Max René Cosotti rispettivamente nei panni di Annina e Giuseppe.
Sul podio Daniel Oren, leggenda vivente anche lui anche se parecchio più giovane di Nucci, fornisce una lettura non del tutto convincente, caratterizzata dal mancato equilibrio nei tempi. Se quelli lenti si possono considerare un po’ troppo lenti, quei veloci risultano davvero vertiginosi e creano nell’ascoltatore la sensazione di pericolo incombente. Il coro areniano, preparato da Vito Lombardi, dà il meglio di sé. Spettacolari e piene di vita sono le danze coreografate da Giuseppe Picone, dove accanto a lui in veste del primo ballerino brilla la giovane stella Petra Conti.
In conclusione una domanda, forse retorica. Il lavoro ventennale di Franco Zeffirelli all'Arena di Verona ha creato una specie di dominazione; si è quasi convinti che “Zeffirelli = Arena”. Sono lontani ormai gli ottimi allestimenti in uno stile completamente diverso, intendiamo Nabucco firmato da Hugo De Ana, e La traviata con la regia di Graham Vick. Tutt’altro che convenzionali, tutt’altro che “il vecchio stile”, entrambi riscossero un grande successo del pubblico. Ci sarà una via d’uscita da una situazione che sembra fossilizzata? O si crederà per molti anni ancora e, forse, per sempre, che lo spazio areniano detti leggi che non possono essere violate e che lo spettacolo deve essere per forza “popolare”? Si crederà di nuovo che anche il pubblico vasto può essere dotato da un cervello e la curiosità?
Il Maître fiorentino non c’è più. Non ci rimane che aspettare.