I magnifici anni ’90, o forse no
di Giuseppe Guggino
Con notevole sforzo produttivo la 71ͣ edizione del Luglio musicale trapanese inaugura con una Carmen non banale, premiata al botteghino dal sold out. Non manca all’appello neanche la pioggia, che arriva fugacemente a fine del quarto atto, consentendo comunque la conclusione dello spettacolo. Di buon livello la parte musicale, talvolta velleitario invece è lo spettacolo di Nicola Berloffa.
Trapani, 14 luglio 2019 - Per questa 71ͣ edizione, inaugurata con Carmen, il Luglio musicale trapanese sembra voler strafare, squadernando oltre a numerosi concerti e qualche serata di danza, ben sei opere, cinque delle quali nuove produzioni, in un percorso che, sin dall’avvio, sembra volersi fare assai ambizioso. E non pare deludere il numeroso pubblico accorso a Villa Margherita – inizialmente un poco tiepido – questa inaugurazione con il capolavoro di Bizet, portato in scena come ormai di prammatica nell’originaria versione coi dialoghi parlati (e sfrondati) da una distribuzione vocale nel complesso assai soddisfacente. Non si rifarà di certo a Mario Del Monaco il Don José piuttosto introverso del giovane Azer Zada, che però canta bene, senza strafare e anche con apprezzabili intenzioni interpretative, usando con intelligenza una vocalità di tenore lirico che probabilmente non avrebbe retto un diverso e più spinto approccio. Anche l’apprezzabile Raffaella Lupinacci, al debutto nel ruolo eponimo, punta più sulla correttezza che sulla sensualità, con consapevolezza del proprio mezzo, disegnando una Carmen indenne da cadute di stile, ancorché di personalità non debordante. Piuttosto muscolare, giustamente, è l’Escamillo di Vincenzo Nizzardo così come di livello insolitamente alto è tutto il comparto comprimariale maschile composto da Masashi Tomosugi (Zuniga), Federico Cavarzan (Dancaïre), Paolo Ingrasciotta (Moralès), Didier Pieri (Remendado). Fra le altre femmes si segnalano la puntuta Frasquita di Leonora Tess e la solida Mercédès di Carlotta Vichi mentre, al suo apparire in minigonna da pin-up e fare ammiccante, Micaëla pare voler dare punti a Carmen in fatto di sensualità; e ci si domanda subito come potrà mai Don José preferirle la sigaraia, ma poi Larissa Alice Wissel inizia a cantare e la plausibilità drammaturgica è presto salva.
Dalla mise di Micaëla si può intuire quanto lo spettacolo di Nicola Berloffa voglia radicalmente fare piazza pulita della cornice iberica da cartolina e ciò che sa costruire non tradisce la crudezza dell’intrigo ìnsita nella novella di Prosper Mérimée. Pesano – e non poco, però – i difetti, i vezzi di maniera, e l’affondare a piene mani sul déjà vu, forse con minor senso del mestiere rispetto ad altre firme del teatro di rottura. Facendo le dovute proporzioni, infatti, il celebre e pluripremiato spettacolo di Calixto Bieito ricorreva alle Mercedes, qui ci si accontenta della più popolare Volkswagen Golf, per di più con l’inconveniente di doverla spingere e senza riuscire a portarla fuori scena, stante la notevole altezza del palcoscenico. Sempre da Bieito pare essere mutuata l’idea ricorrere a Lillas Pastia (impersonato con sfrontatezza dal bravo Giuseppe Amato) quale deus ex machina della vicenda, facendone il capo dei bulli e lasciandolo in scena praticamente per tutto lo spettacolo. Funziona meno rispetto a Bieito lo spostamento d’epoca; siamo negli anni ’90, lo si intuisce da i costumi un po’ Oviesse di Edoardo Russo, dal fondale surrealista che strizza l’occhio a David LaChapelle, o forse negli anni ’80 della radio boombox che Lillas Pastia porta in spalla. Certo non aiutano a fugare l’indeterminatezza le scene di Aurelio Colombo, riconducibili ad un praticabile nero sul fondo (poco usato, per la verità), che devono delegare un poco troppo la creazione delle atmosfere al disegno luci di Valerio Tiberi; parimenti sovente rinunciataria pare essere la stessa regia, che delega invece con troppa facilità ai balli di gruppo di Marta Negrini. Certo è che – anni ’80 o ’90 che fossero – anche l’idea vincente di risolvere la corrida fuori scena al quarto atto con la proiezione di un film inciampa nella debolezza: nessun cinema all’aperto in quegli anni avrebbe proiettato una pellicola del primo dopoguerra (per la cronaca, a più riprese, Sangue Gitano di Lubitsch), né il clima militare in quale misura pare riuscire a venir fuori, come invece accadeva nella trasposizione “forte” di Bieito nella Spagna franchista.
Al netto delle sbavature dello spettacolo, i solisti, gli artisti del coro (ben preparato da Fabio Modica), le ragazze di Roberta Caly e il corpo di ballo, ne sanno estrinsecare l’innegabile cifra identitaria, con quella convinzione tale da renderlo vincente e porlo a riparo dalle temute contestazioni del pubblico più conservatore.
A reggere le fila musicali del discorso è Laurent Campellone che conosce la partitura a menadito, vi si dedica amorevolmente, cantandola praticamente da cima a fondo, evaporando quasi sotto la calura umidiccia serale che si condensa in un tanto imprevedibile quanto fugace scroscio di pioggia a fine del quarto atto; i complessi lo seguono parzialmente, perché la ricca orchestrazione del capolavoro di Bizet esigerebbe quantomeno più nerbo dagli archi, ma il successo è comunque corale e meritato. E di buon viatico, all’avvio di stagione.