Vitale dolcezza
di Mario Tedeschi Turco
Pietro De Maria conferma la sua piena maturità artistica in un programma far tremare le vene e i polsi, sul piano poetico più ancorra che su quello, pur ragguardevole, virtuosistico.
VERONA, 14 ottobre 2019 - Pietro De Maria è un musicista che certo non abbisogna di presentazioni: presente sulla scena concertistica e discografica da decenni, a 52 anni è giunto forse nel pieno della sua maturità tecnica e artistica. A Verona, per il concerto inaugurale della 110a stagione della storica società Amici della Musica, si presenta con un programma impegnativo e magnificamente pensato: gli Études-tableaux,op. 39 di Rachmaninov nella prima parte; un florilegio chopiniano nella seconda, con Mazurke (4, op. 67; 2, op. 24; 3, op. 63), Scherzo n. 4, Notturno, op. 55 n. 2, Berceuse, op. 57 e chiusura con la Ballata n. 4. Da far tremare le vene e i polsi, non tanto per virtuosismo richiesto (pur necessario, eccome!), ma per la difficoltà di inquadrare in un plausibile itinerario espressivo la quantità estremamente varia dei gesti poetici dei due autori, distanti per cronologia, eppure evidentemente legati nel tentativo di plasmare la forma – a volte di aforistica concisione, a volte di più ampia campitura – secondo diagrammi astratti di preparazione, tensione, attesa, elusione e/o risoluzione che ciascun brano richiede.
Procediamo con una sintesi dei punti di forza dello stile di De Maria, efficacemente sintetizzati da Luca Ciammarughi con la formula «nascondere il virtuosismo attraverso il virtuosismo stesso»: alla tastiera il pianista appare concentratissimo eppure rilassato, non caricando mai l’energia muscolare dalle spalle, e lasciando dunque fluire il decorso musicale mediante l’avambraccio e il gioco puramente digitale. L’intenzionalità sonora di Rachmaninov ne viene restituita non alla maniera irruenta, che sottolinei l’epica o la tragedia, ma al contrario con un impressionante nitore di linee lirico-elegiache: il secondo brano dell’op. 39, Lento assai, ne viene esaltato in questo modo, con lo stagliarsi dell’eco del Dies irae che lascia poi spazio all’andamento cantilenante, in una resa dello spazio sonoro che diresti classica. L’uso del pedale di risonanza è estremamente sobrio, “letterale” nel rispetto delle indicazioni annotate, così che anche il settimo brano, Lento, risuona nobile, austero, e i seguenti due pezzi conclusivi sentimentali senza languori, ricchi di pathos privo di svenevolezze, sia nei passaggi modali dell’ottavo Allegro moderato, che nell’energia (fors’anche di maniera) annotata nell’ultimo brano, dal ritmo dattilico esasperato. Forse questo approccio di De Maria, di rilevata originalità, non coglie perfettamente nei passaggi cromatici con arpeggi fiammeggianti dell’Appassionato, quinto in sequenza, la peculiare timbrica di Rachmaninov, risultando questa leggermente oscurata, come un ribollire indistinto sopra il quale le linee motiviche pur semplici non acquisiscono adeguato rilievo; e allo stesso modo, nel terzo tassello del ciclo, Allegro molto, il più difficile tecnicamente, le sovrapposizioni dei tempi in due e in tre non sono state risolte con la stessa esemplare chiarezza altrove cristallina. Ma si tratta di un dettaglio, per un’esecuzione di pregio e di originale concetto complessivo.
Con la serie chopiniana, si è volato davvero alto. Innanzitutto, il suono come parametro di costruzione (non solo timbro determinato dal tocco, evidentemente, ma il rapporto dialettico/organico che questo intrattiene con il decorso melodico) è apparso di una rifinitura esemplare, più ricco e variato di quello esibito nel Rachmaninov anche se il gesto complessivo, di elegiaca compostezza, alla fine è risultato il medesimo. Solo che con Chopin si sente che De Maria dialoga come con un caro amico, o chissà, con la parte più profonda di se stesso. Se già nelle tre Mazurke la dissoluzione della danza nel rimpianto della perdita, sublimata tuttavia nella grande forma (il canone all’ottava dell’Op. 63, n. 3, di una trasparenza prodigiosa) avevano mostrato il musicista al suo meglio, ci è parso che soprattutto nella Berceuse la leggerezza di tocco, il volare letteralmente sui tasti di De Maria abbia restituito uno Chopin che pochi, oggi, sanno intendere a un tale grado di penetrazione: la serie delle variazioni formali e di carattere è risuonata con un grado di ondulatoria densità di presenza mirabile; l’enigma della dissonanza sul Do bemolle nel pre-finale e dell’evanescente conclusione del pari. Una grande riuscita, il vertice di un concerto che peraltro anche nella Quarta Ballata e nello Scherzo ha fatto udire cose straordinarie perché dal pianista profondamente rivissute: all’insegna, come si diceva all’inizio, di un rifiuto dell’esteriorità, del gran gesto pirotecnico, e invece sintonizzate, sempre, sulla trasparenza opalescente della costruzione, che è insieme un fatto logico e un diagramma indeterminato di vita psichica. Lo Chopin di De Maria, nel primo tema di notturno e nel secondo di barcarola della Ballata, in particolare, ha fatto udire un calcolo millimetrico delle relazioni tra le frequenze e il loro ritmo, la loro pulsazione, con un’arte del rubato impiegata esclusivamente per esaltare il canto e il suo mood prevalentemente malinconico, pessimista, carico di dubbio. Ma con una dolcezza desolata e ugualmente vitale che resterà nella memoria.