I fasti di Tosca
di Alberto Ponti
La ripresa dell’opera di Puccini al Regio ha il punto di forza nel sontuoso allestimento di Mario Pontiggia e nella fiammeggiante coppia di antagonisti di Anna Pirozzi (Tosca) e Ambrogio Maestri (Scarpia). Equilibrata e senza scossoni la direzione di Daniel Oren
TORINO, 22 ottobre 2019 - Se, oltre all’orecchio, anche l’occhio reclama la sua parte, la regia di Mario Pontiggia per questa Tosca torinese entra di diritto tra gli spettacoli più riusciti e accattivanti delle ultime stagioni del Regio. Lo sguardo del metteur en scène argentino, già sperimentato nell’allestimento palermitano ripreso per l’occasione, è attento e scrupoloso nel rispettare il libretto, abile nel creare ambientazioni ariose e suggestive. La cura del dettaglio maniacale, precisa senza pedanteria, arriva ad accarezzare un virtuosismo viscontiano nella ricostruzione dell’interno di Palazzo Farnese nel secondo atto: tra l’opulenta raffinatezza degli affreschi, il brillare dei candelabri sul tavolo e la scrivania di Scarpia, si manifesta l’illusione prospettica di un corridoio infinito spalancato, nel retro del palco, al di là della porta del salone. Illuminanti e calati nella movimentata azione di un’opera che scivola inesorabile e rapida verso la catastrofe col meccanismo di un perfetto congegno a orologeria (in questo soprattutto Puccini è il grande erede di Verdi) sono pure la navata di Sant’Andrea della Valle, dominata dal trompe-l’oeil della cupola rovesciata con effetto di sghemba wunderkammer alla Escher, al pari degli spalti di Castel Sant’Angelo teatro dell’atto conclusivo. Pontiggia non inventa nulla ma riesce sempre originale, aiutato dalle luci di Bruno Ciulli e dalle scene e costumi di Francesco Zito, efficace nel tratteggiare i protagonisti. L’unica eccezione, nel primo atto, dell’abito verdazzurro dell’entrata in scena di Tosca, più consono alla madre della sposa in un matrimonio eccentrico, è riscattata da un esaltante finale col calcolatissimo tripudio cromatico del grandioso Te Deum.
Sul piano musicale, la serata del 22 ottobre registra il ritorno sul podio di Daniel Oren, sostituito per indisposizione alle prime quattro recite dal giovane Lorenzo Passerini. Il maestro israeliano, di casa al Regio e oggetto delle calde ovazioni di un pubblico affettuoso, si conferma un usato sicuro, dimostrando di conoscere senza dubbio a fondo un titolo quale Tosca. Oren stacca bene i tempi, ha il merito non piccolo di non prevaricare mai i cantanti e sa bene quali tasti toccare per suscitare la migliore resa dell’orchestra pucciniana: qua una pennellata dell’arpa, là un tremolo rubato dei violini, là ancora un colpo di timpano assestato con la cupa brutalità di una fucilata. Certo, in una partitura come questa si potrebbe e dovrebbe osare qualcosa in più per rendere vera giustizia all’inesauribile inventiva timbrica e armonica del compositore. L’eccellente forma dei complessi del Regio aiuta a gustare preziosi dettagli ma il colore rimane per larghi tratti piatto e uniforme, specie nei passi di più intensa enfasi sinfonica. Lo si avverte da subito dal veemente inciso sincopato che, già alla quarta battuta, squarcia il velo sulla tragedia dopo la misteriosa sospensione del tema di Scarpia: violenza sia, passione pure, ma con moderazione e giudizio. L’orgoglio piemontese della platea (il proverbiale ‘esageruma nen’) è forse soddisfatto ma, in una vicenda folle come Tosca, un quid di ben organizzata follia dal podio non potrebbe che giovare all’arte eccelsa di Giacomo Puccini.
Anna Pirozzi è soprano dall’ottimo presente e dal luminoso futuro. Ha il physique du rôle di Tosca, movenze da attrice, voce sicura e drammatica con risonanze cristalline e affascinanti opalescenze nel registro acuto che lasciano un retrogusto gradevolmente amarognolo come un bitter Campari servito con ghiaccio abbondante. Accende un’autentica esultanza da stadio dopo un ‘Vissi d’arte’ traboccante di espansiva emozione, senza mai abbandonarsi al facile effetto. La cantante, ferratissima anche nel declamato, convince appieno nelle scene e nei duetti con Cavaradossi nel primo e terzo atto, con un abbandono al lirismo più spiegato nel finale, ma è nell’episodio con Scarpia nel cuore dell’opera che il suo graffiante temperamento ha la meglio in termini di resa melodica e teatrale.
Applausi a scena aperta si guadagna Marcelo Álvarez con le due celebri romanze che Puccini gli regala, nonostante il suo Mario Cavaradossi riveli a tratti qualche segno di stanchezza nell’intonazione, sorretto da un mestiere di prim’ordine che lo tiene lontano da improvvidi cedimenti. Il tenore argentino disegna un personaggio a tutto tondo in grado di trascorrere dal soave fraseggio legato di ‘Non la sospiri la nostra casetta’ all’esultanza possente di ‘Vittoria! Vittoria!’ per conquistarsi un ruolo di assoluto protagonista nell’epilogo.
Trionfa in Scarpia Ambrogio Maestri, ritratto magistrale del perfido capo della polizia pontificia. Dovizia di sfumature nell’accento e nel portamento, agilità nel timbro, elasticità nell’estensione, portentoso accoppiamento di minaccia ed ironia (indimenticabile ‘Già, mi dicon venal’), prontezza, se del caso, a inabissarsi nelle cavernose profondità di uno sprechgesang ante litteram caratterizzano un’interpretazione sfaccettata e cangiante, tra le migliori in circolazione oggi.
Accanto al trio in evidenza reggono il confronto i comprimari di Roberto Abbondanza (il sagrestano), Romano Dal Zovo (un vivido console Angelotti), Gabriel Alexander Wernick (Sciarrone), Bruno Lazzaretti (Spoletta), Giuseppe Capoferri (un carceriere) e la voce bianca di Viola Contartese nel pastorello chiamato ad aprire con delicatezza l’ultimo atto. Duttili e puntuali gli interventi del coro diretto da Andrea Secchi. Un successo entusiasta, con ripetute chiamate sul palco per tutte le parti principali, si prolunga per una decina di minuti abbondanti in una sala non pienissima.
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foto Edoardo Piva