Labirinto di nevrosi
di Luigi Raso
Esiti alterni per il ritorno al teatro di San Carlo di Ermione, uno dei più straordinari e rivoluzionari capolavori rossiniani. Si impongono le voci femminili di Angela Meade e Teresa Iervolino, con l'Oreste di Antonino Siragusa; suscitano perplessità il Pirro di John Irvin e alcune scelte di regia e concertazione.
NAPOLI, 9 novembre 2019 - Pur considerando il pubblico del Teatro di San Carlo il “più dotto d’Italia” e quindi potenzialmente incline a accogliere favorevolmente l’opera più sperimentale del settennato napoletano (e non solo, probabilmente), Rossini nel gennaio del 1819 fu assalito da qualche dubbio, tanto da scrivere alla madre - come è riportato nell’illuminante saggio a firma di Sergio Ragni nel programma di sala - “Sto abbastanza avanzato colla mia Ermione. Temo che il soggetto sia troppo tragico, ma poco me ne importa ormai posso dire che è fatto il becco all’Oca”.
“Ormai è fatta!”, pensò dunque Rossini, consapevole di aver osato forse troppo, senza, tuttavia e per nostra fortuna, ritornare sui propri passi.
La prima di Ermione, com’è noto, ebbe un esito molto contrastato; successivamente alle sette rappresentazioni sancarliane del marzo 1819 nel corso dell’800 non si registra alcuna sua messa in scena.
L’apertura di credito nei confronti del pubblico napoletano fu probabilmente concessa da Rossini con eccessiva fiducia.
Si deve attendere il 1977 per rivederla rappresentata, seppur in forma di concerto, a Siena e successivamente, e stavolta in forma scenica, a Pesaro e a Napoli, con Montserrat Caballé nel ruolo della protagonista.
E’ singolare che Rossini non approntò alcun rifacimento di Ermione neppure per le scese parigine, così come accadrà per Maometto II, Mosè in Egitto; amerà, però, per tutta la vita questa “figlia” nata a Napoli, modellata sulle capacità vocali e soprattutto espressive di Isabella Colbran, ma, come la critica ha autorevolmente sentenziato, troppo avanti sui tempi per quel 1819, eppur così ricca di suggestione e tremendamente attuale per noi ascoltatori contemporanei per l’acuta indagine delle nevrosi e delle solitudini dei personaggi
E in effetti, Ermione a buon dritto può essere considerata, insieme a Guillaume Tell, l’opera più rivoluzionaria del Pesarese. La rottura delle convenzioni compositive finora dominanti è immediata: l’opera si apre con la “sinfonia con cori”, che immediatamente conferisce all’azione la drammaticità di cui è impregnata l’intera Azione tragica; il virtuosismo canoro, soprattutto quello della scrittura vocale della protagonista, è spinto fino al parossismo vorticosamente espressivo, emanazione della psicologia tormentata di Ermione; nelle sue volute vocali vi è quasi una rinuncia all’edonismo sonoro, essendo la linea di canto - specchio sonoro di un’anima tormentata e instabile - farcita di slanci verso gli acuti che non vengono risolti, ma che restano invece come sospesi.
In aderenza al contesto drammaturgico, con Ermione si assiste al superamento di quel belcantismo rossiniano; esasperandolo e, quasi aprendo le porte su un prototipo di espressionismo canoro, il Pesarese intravede, dieci anni prima del Tell, ancora una volta la musica dell’avvenire.
Il linguaggio musicale di Semiramide (1823), rispetto allo sperimentalismo ardito del periodo napoletano (1815 - 1822) e massime di Ermione, appare, nella esplosione della sua grandiosa potenza espressiva e drammatica, quale suprema codificazione delle forme dell’opera seria del primo ‘800 improntata a un convinto “ritorno all’ordine” da parte di Rossini stesso.
Encomiabile che il Teatro San Carlo festeggi il bicentenario di questa opera così ricca di suggestioni, innervata da un flusso continuo di “nevrosi musicali” che per il pubblico contemporaneo, a differenza di quello dell’800, suonano familiari.
Un ritorno, quello di Ermione sulle scene sancarliane, dopo ben trentuno anni, che però avrebbe meritato maggiore compiutezza e cura nella produzione dello spettacolo.
Non sembra cogliere i tesori di drammaturgia, né l’aderenza musicale all’azione e al testo di Tottola, lo spettacolo firmato da Jacopo Spirei: la sua è una regia eccessivamente statica, con i cantanti abbandonati al loro destino in palcoscenico, improntata a una lettura superficiale del dramma.
L’astratta ambientazione novecentesca, incorniciata in uno spazio dominato dal bianco e nel cui interno coesistono sgargianti abiti maschili e femminili, pepli femminili e divise militari dà la sensazione di aver tentato di voler rileggere il dramma alla luce delle inquietudini contemporanee, ma avendo timore a scandagliarle fino in fondo. Uno spettacolo che ha il sapore dell’incompiuto, improntato a una afasia teatrale, rinunciatario nell’aggredire il plot drammatico che Ermione serve sul piatto d’argento. E così solo l’ultima scena, molto, eccessivamente pulp,del massacro di Pirro, di Andromaca e degli invitati al banchetto, riesce ad emergere dal biancore dominante dell’impianto scenico di Nikolaus Webern, tempestato dal caleidoscopio dei colori dei costumi di Giusi Giustino. Le luci di Giuseppe Di Iorio, infine, poco contribuiscono a infondere teatralità all’idea registica.
Sul versante musicale, la concertazione di Alessandro De Marchi, pur non priva di colori, sin dalla sinfonia raffredda la tensione drammatica, affievolendo quella sulfurea nevrosi che aleggia nella partitura. Estremamente scialba è la preparazione ritmica orchestrale dell’annuncio dell’arrivo di Oreste, climax del duetto Pirro - Ermione; del tutto incomprensibile e non aderente alla drammaturgia la scelta agogica di "Povero e mesto cor sei nato a sospirar", dall’andamento marcatamente danzante.
Alla concertazione sfugge talvolta anche il controllo preciso delle masse: la prova dell’orchestra non è improntata alla consueta precisione alla quale ha abituato il pubblico sancarliano, pur conservando buono smalto sonoro; discorso che vale anche per il coro - diretto da Gea Garatti Ansini - troppo spesso impreciso e sfaldato al suo interno, sin dagli interventi durante la sinfonia.
L’attesa era tutta per Angela Meade, oggi probabilmente la migliore Ermione in circolazione.
Voce dall’indubbio peso sonoro, debordante nel registro acuto, piena in quello basso - seppur con qualche forzatura dal dubbio gusto - ha vocalità che impressiona immediatamente, al netto di una dizione a dir poco problematica.
Dal punto di vista interpretativo la prestazione della Meade è in crescendo: più misurata e distaccata nel primo atto, nella Gran scena del secondo atto "Essa corre al trionfo!" dà fuoco alle polveri del proprio armamentario vocale ed espressivo, plasmando, grazie alle proprie indiscutibili capacità vocali più che all’acume interpretativo, una Ermione in disfacimento psicologico, dilaniata tra amore, desiderio di vendetta e di morte, perdono.
Vertice dell’opera, apoteosi della sperimentazione rossiniana, la Gran scena, modellata sulle corde vocali ed espressive di Isabella Colbran, nel suo procedere volutamente ondivago attraverso le sue sette sezioni, è uno potente studio musicale del “guazzabuglio del cuore umano” che consente ad Angela Meade ti trovare le note e, soprattutto, la tinta giusta per ciascuna sfumatura della psicologia allucinata della infelice Ermione. Il soprano americano domina con sicurezza le nevrotiche colorature, farcisce la scrittura di puntature ben tenute, seppur non essenziali al discorso musicale: al termine, il pubblico esplode in un boato di applausi.
L’Adromaca di Teresa Iervolino si impone sin dalla cavatina "Mia delizia, un solo istante" per il bellissimo colore vocale, corposo, scuro, perfetto per i ruoli mezzosopranili di Rossini, compatto e voluminoso nell’intera tessitura; l’interprete è sempre partecipe, non perde l’aplomb da principessa pur nella umiliazione della sconfitta, pur mostrandosi madre accorata e abile calcolatrice nel duetto con Pirro "Ombra del caro sposo".
Punto vocalmente debole di questa ripresa di Ermione è il Pirro di John Irvin - schierato in extremis nel cast - la cui voce ha peso sonoro tanto esiguo che nella vasta sala del San Carlo risulta non sempre ben udibile; non si può dire che Irvin affronti male la terribile parte ideata da Rossini per le corde vocali di Andrea Nozzari (1776 - 1832), tuttavia la prova interpretativa è connotata da un grigiore esasperante. E Ermione senza Pirro è esercizio di ardita immaginazione, data l’importanza della parte per lo sviluppo drammatico e musicale dell’azione.
Possiede squillo e facilità nel registro acuto l’Oreste di Antonino Siragusa che si impone per lo stile e per l’esperienza con i quali affronta la vocalità rossiniana. Una prova positiva e degna di encomio quella del tenore messinese, per la capacità di risolvere le insidie della scrittura e di creare un Oreste credibile.
Il Fenicio di Guido Loconsolo si segnala per il bel colore vocale brunito e corposo e per la perfetta dizione nel duetto del sorbetto "A così trista immagine" con il valido Pilade di Filippo Adami.
Nei ruoli secondari fanno bene Gaia Petrone nella parte di Cleone, Chiara Tirotta come Cefisa, Cristiano Olivieri come Attalo.
Al termine, dalla sala del San Carlo finalmente piena come l’interesse della riproposizione impone, decreta un grande successo per tutti e un’autentica ovazione per Angela Meade, indiscussa star della serata.
Rossini, anche a duecento anni dalla sua presenza a Napoli, resta il signore assoluto delle tavole e degli arredi del “suo” Real Teatro di San Carlo, nel quale è amato oggi ancor più che due secoli fa.
Questa recensione - la prima che non potrà leggere - è dedicata al Sig. Bruno Nettuno, per quasi cinquanta anni impiegato come personale di sala del Teatro San Carlo.
Persona gentile, raffinata, sempre disponibile e sorridente con tutti, ha allietato le serate in teatro di schiere di amici e di melomani che in lui vedevano una delle colonne portanti del teatro.
Caro Bruno, resterai sempre nei nostri cuori e tu sempre nel tuo adorato San Carlo!