La banalità del male (e del bene)
di Roberta Pedrotti
Fra luci (Leonore) e ombre (Florestan) nel cast, si fa apprezzare la nuova produzione di Fidelio realizzata dal Comunale di Bologna con la Staatsoper di Amburgo, ricordando i trent'anni dalla caduta del Muro di Berlino e tutte le insidie ancora vive di un male quotidiano a cui si dovrebbe contrapporre un bene non meno quotidiano.
BOLOGNA, 10 novembre 2019 - Non è un giorno qualunque per una prima di Fidelio. Trent'anni fa l'Europa festeggiava sulle macerie del Muro di Berlino e lo faceva – anche – sulle note di Beethoven. Ottantun'anni fa la Germania si risvegliava dopo la notte del Pogrom di novembre, dopo la Notte dei cristalli. No, non è un giorno qualunque per una prima di Fidelio, mentre l'Italia vive uno dei suoi periodi più bui nella storia repubblicana (e forse della sua storia unitaria: starà agli storici fare valutazioni e confronti) sdoganando l'odio, derubricando l'orrore.
In questi giorni, la coproduzione del Teatro Comunale di Bologna con la Staatsoper di Amburgo è più attuale che mai, proprio nel suo sviluppare il tema della banalità del male. Tutto si svolge in un rassicurante interno, un po' ufficio un po' salotto: la scrivania di Rocco, un pianoforte, la tavola. Là fuori dalle finestre la natura, pura, indifesa, minacciosa, misteriosa; qui Pizarro pianifica i suoi crimini chiedendo a Marzelline, intanto, di suonare qualcosa (e chi dimentica, pur nell'esplicito richiamo al clima claustrofobico della DDR, l'immagine del gerarca nazista che uccide ascoltando musica?), qui le pareti celano immani schedari, ma le schede sono uomini, uomini in carne e ossa che soffrono e che i burocrati della morte non sembrano nemmeno vedere. Alcune frasi di Georg Büchner (il geniale autore di Woyzeck, morto nel 1837 prima di compiere ventiquattro anni) fanno emergere in un contesto storico non lontano da quello in cui Beethoven scrive un'immagine della società ben più critica di quella quasi favolistica che la superficie del genere à sauvetage, cui Fidelio appartiene, lascia galleggiare: un malvagio tiranno che perseguita una virtù eroica in cui soccorso sopraggiunge, deus ex machina, un illuminato potere superiore. Il sistema è un meccanismo perverso in cui nessuno è colpevole, tutti sono complici. Rocco ne è l'emblema: un buon uomo concreto, ma anche uno zelante impiegato pronto a “eseguire gli ordini” senza porsi dilemmi morali. Jaquino, pure, non si pone problemi, ubbedisce al potente di turno, capisce poco e poco gli importa, basta soddisfare i propri istinti. Non si pone problemi nemmeno Marzelline, che prosegue imperterrita la sua vestizione da sposa di un uomo, Fidelio, che in realtà non esiste. All'opposto, nemmeno Leonore si pone problemi, ma perché ha deciso di seguire la propria coscienza, non di abdicare a essa: così, quando Florestan, che anche in carcere scrive le sue lettere e i suoi memoriali da vero intellettuale dissidente, celebra il suo eroismo lei pare schermirsi. Ha agito così solo perché era giusto e, come diceva Claudio Abbado, “le cose giuste si fanno e basta”.
È un ottimo spettacolo , questo di Georges Delnon (scene di Kaspar Zwimfer, costumi di Lydia Kirchleitner, luci di Michael Bauer, video di fettFilm), magari non memorabile per definizione del dettaglio attoriale, ma intelligente, strutturato, limpido, pensato. Non meno chiara è la visione di Asher Fisch, con il suo Beethoven così ben contestualizzato, controllato, persino pudico e trattenuto nell'ouverture e nei primi numeri, a lasciare che il respiro della partitura si evolva e si sviluppi con il dramma, senza perdere precisi riferimenti stilistici (difficile non pensare al duetto degli armigeri e alle prove iniziatiche della Zauberflöte nella discesa agli inferi carcerari di Rocco e Leonore/Fidelio), senza perdere la cifra della peculiarità beethoveniana nel suo tempo. Così, la retorica è schietta e ben articolata, senza gonfiori magniloquenti, come i tempi, agili e consequenziali, le dinamiche calibrate con intelligente misura. Peccato che non sempre il cast sia all'altezza, lasciando emergere, in definitiva, la sola Leonore di Simone Schneider, che canta senza cedimenti la parte quantomai insidiosa; il timbro morbido e lucente, emesso con salda naturalezza, si espande senza difficoltà e si distingue anche nei pezzi d'assieme. Christina Gansch si disimpegna sicura e corretta come Marzelline, così come Sascha Emanuel Kramer, Jaquino vocalmente non memorabile ma nel complesso efficace. Petri Lindroos è un Rocco un po' opaco, che cede il passo all'esperienza di Lucio Gallo: questi conosce assai bene Pizarro e si giova, dati i mezzi vocali un po' appannati dal tempo, di questa discreta immagine di burocrate della morte. Nicolò Donini è un distinto Don Fernando, Andrea Taboga e Tommaso Norelli i due prigionieri corifei. E val la pena di sottolineare il grande impegno dei complessi bolognesi, che non possono sfoggiare i possenti organici e la familiarità con questo repertorio dei corrispettivi d'Oltralpe, tuttavia trovano con Fisch il giusto equilibrio per rendere il respiro ideale del testo.
Chi proprio non funziona è Erin Caves: avremmo un bel discutere della vocalità di Florestan, dei suoi legami con Tamino e con l'eroismo del tenorile a cavallo fra XVIII e XIX secolo, dei debiti dell'heldentenor wagneriano nei suoi confronti, dell'asperità della scrittura. I limiti tecnici e i frequenti sbandamenti d'intonazione di Caves ci fanno dubitare che possa far molto meglio in parti meno esigenti.
Alla fine applausi per tutti e un buon successo per una serata che, pur fra luci e ombre, si distingue per una confortante qualità complessiva e non ci lascia senza spunti per riflettere.
foto Andrea Ranzi, studio Casaluci