L'angelo dalle ali di carta
di Roberta Pedrotti
Debutta finalmente sulle scene L'ange de Nisida, l'opera di Gaetano Donizetti che si credeva perduta e si rivela un capolavoro. Il lavoro filologico di Candida Mantica prende vita nella concertazione di Jean-Luc Tingaud, nell'allestimento ricco di suggestioni e chiavi di lettura di Francesco Micheli, in un cast perfetto composto da Lidia Fridman, Konu Kim, Florian Sempey, Roberto Lorenzi e Federico Benetti.
BERGAMO, 16 novembre 2019 - Chi avrebbe mai immaginato di poter assistere oggi alla prima assoluta di un'opera di un grande del passato? Non alla ripresa di un lavoro dimenticato, non a qualche pagina giovanile rimasta nel cassetto, ma a una partitura d'ampio respiro concepita nella piena maturità e mai arrivata alle scene. La nascita con un centottanta anni - mese più, mese meno - di ritardo dell'Ange de Nisida è un evento che si potrebbe paragonare alla riscoperta del Viaggio a Reims, altra opera rimasta fantasma per oltre un secolo e mezzo e nota solo per il riutilizzo di alcuni numeri, se non fosse che sulle scene la surreale cantata rossiniana riuscì ad arrivare, mentre una serie di contingenze bloccò e disperse il lavoro di Donizetti.
Vede finalmente la luce L'ange de Nisida grazie al lavoro inestimabile di Candida Mantica [leggi l'intervista] e l'opera si rivela come capolavoro e non come il cartone preparatorio della Favorite, quale si era a lungo ritenuto. Certo, il soggetto è simillimo: l'amante del re e un giovanotto si innamorano, ma lui ignora la vera condizione di lei, scoprendola, quando il soprano propone un matrimonio di comodo per liberarsi dalle minacce di scomunica papale, si sente tradito, fugge in convento dove lei lo raggiunge per morire fra le sue braccia. Tuttavia, la musica che dall'Ange finirà nella Favorite non è, a ben vedere, preponderante (alcuni cori, ma con collocazioni diverse, il duetto fra la primadonna e il tenore, parte di quello fra lei e il baritono, parte delle grandi scene d'assieme del nunzio papale e del matrimonio, quasi tutto il quarto atto eccezion fatta per l'aria del tenore e per un finale più dolente e meno fulmineo), ma soprattutto l'articolazione dei numeri ha una mobilità maggiore, quasi sperimentale, come si vede nel quartetto che chiude il secondo atto e che ha una stretta concepita quasi come cabaletta del baritono - cui mancherebbero pezzi solistici - con pertichini. La struttura musicale, l'elaborazione delle arie e dei pezzi d'assieme con l'acume disinvolto proprio del Donizetti maturo si plasma su una drammaturgia serrata, sviluppata nelle tensioni, le trappole, gli inganni fra cinque personaggi principali in perfetto equilibrio, tutti delineati a tutto tondo. Pensiamo alla coerenza del Monaco rispetto a Balthazar, a come viene introdotto gradualmente: confessore del re incaricato di recare l'ambasciata del Papa, accoglie infine Leone nel suo monastero, non compare subito in un andirivieni fra il chiostro, la corte e Roma (e non parliamo dell'assurdo di quel pasticciaccio brutto che è La favorita in italiano, in cui la traduzione lo trasforma pure in padre di Fernando e della regina cornuta). Pensiamo a Leone, un giovane nobile che viene proscritto per un delitto d'onore e che solo alla fine si rifugia nella religione, mentre Fernand da novizio ingenuo vive una parentesi sorprendente da valoroso condottiero. Pensiamo a un re che, carnale e sprezzante, dopo aver approvato il matrimonio riparatore sente i morsi della gelosia, al contrario di Alphonse, che canta un'aria di sortita amorosissima e poi cede Léonor come se nulla fosse. Pensiamo soprattutto a Don Gaspar, non il Borsa, il Normanno, lo Spoletta della Favorite, ma un basso baritono autentico deuteragonista, un ciambellano onnipresente, goffo tessitore di trame, anche brillante o comico in certi modi (la sua cabaletta finirà dritta dritta in bocca a Don Pasquale), ma con un ghigno mefistofelico mai fuori posto nel dramma, anzi, perfetto in quel gioco continuo d'inganni e illusioni che è L'ange de Nisida. E pensiamo, naturalmente, a lei, Sylvia, creatura sfuggente, enigmatica, all'apparenza ingenua, ma via via sempre più definita e matura, fino a dissolversi, però, ancora in una morte spirituale prima ancora che fisica.
A Bergamo, non solo l'opera debutta nella sua forma completa, nella sua essenza teatrale, ma rispetto all'incisione Opera Rara [leggi la recensione] che l'aveva preceduta lo fa anche con una ben più scrupolosa adesione filologica: si elimina il preludio e le (poche) battute di recitativo composti ex novo da Martin Fitzpatrick, l'uno non necessariamente nei progetti di Donizetti, le altre sostituite da brevi azioni mute a sottolineare le, minime, lacune nella partitura; si sceglie, per sciogliere il nodo della tormentata aria di Sylvia, non di mantenere una forma più tradizionale come nel CD - dove si ricorre a un inserto da Maria di Rohan - ma l'opzione meno scontata, utilizzando materiale afferibile alla Favorite ma non confluito nella stesura definitva e con ogni probabilità proveniente proprio dall'Ange (la realizzazione è a cura di Federico Biscione). Così, davvero, abbiamo di fronte a noi, in tutta la sua forza teatrale, il capolavoro inedito di Donizetti, un'opera che merita davvero di entrare in repertorio come è avvenuto per Il viaggio a Reims.
Il valore dell'Ange emerge netto, inequivocabile, grazie anche a un allestimento che al rigore accompagna una suggestione, un'ispirazione poetica capace di farsi sostanza teatrale e drammaturgica. Il teatro Donizetti è in restauro, ancora non può ospitare l'opera nel pieno della sua funzionalità, e allora diventa uno spazio aperto, in divenire, esattamente come era l'opera perduta e ricomposta alla maniera di un puzzle. L'azione si svolge nello spazio della platea, con il coro che occasionalmente si sporge anche dal loggione, il pubblico si divide fra palchi e scena, con il busto di Gaetano in prima fila a godere finalmente di questo debutto. Un debutto che sorge da quelle carte disperse e riassemblate che ricompaiono simbolicamente in un tappeto di fogli pentagrammati, di pagine dell'Ange che volano e si posano là dove l'opera, finalmente, prende vita. Ma questa carta è anche metafora del mondo di illusioni e inganni di questo dramma: Sylvia appare con le sue piccole ali fasulle di fanciulla strappata alla sua terra per soddisfare i piaceri del re, ma anche per impersonare un'utile maschera di magnanimità verso i poveri dell'isola, che la venerano mentre lei, esposta in un reliquiario di cartapesta, s'illude del suo ruolo di benefattrice. In realtà il re gestisce il potere come un boss della malavita, delegando gli affari sporchi al ciambellano tuttofare, caporale di un manipolo di guappi. Eppure, questa espressione del male, della violenza fisica e psicologica che alligna in tutta la vicenda (ricordiamo che Leone appare come un assassino in fuga, non come il novizio turbato che sarà Fernand), non tradisce la cifra poetica di uno spettacolo che canta, con il dramma spietato e senza speranza, anche il fascino fragile, eterno, mutevole del teatro d'opera, fissato su fogli sottili, vivo nell'effimero della performance. Così, la finzione montata intorno all'ostensione angelica dell'amante del re si propaga nella finzione del matrimonio orchestrato da Gaspar, per il quale tutti compaiono in sgargianti abiti di carta, personaggi di un libro illustrato (ricordate La bella addormentata nel bosco della Disney?), fanti donne cavalli e re del tavolo da gioco, illusioni che si stracciano verso un epilogo mortale, ma cantato con un dolcissimo compianto sulla povera Sylvia, quasi una berceuse che si dissolve nella materia di cui sono fatti i sogni, di cui è fatto il teatro, da cui è rinata l'opera perduta. Davvero Francesco Micheli, come regista (con Angelo Sala scenografo, Margherita Baldoni costumista, Alessandro Andreoli per le luci) oltre che come direttore artistico, ha superato se stesso nel mettere in scena quest'Ange de Nisida. Ha celebrato lo spazio teatrale, ha celebrato la ricerca filologica, l'essenza inafferrabile del genere operistico ma anche la drammaturgia del capolavoro rivelato. Ed è bravissimo, da parte sua, Jean-Luc Tingaud sul podio: mantiene perfetto l'equilibrio anche con una dislocazione atipica di orchestra, solisti e coro (e qui divide il merito con Fabio Tartari), rende alla partitura il servizio che merita assecondandone il respiro teatrale, la scrittura preziosa e spesso sorprendente anche nell'articolazione melodica.
Unica donna in scena (e anche questa è una differenza non da poco rispetto alla Favorite, dove almeno avrà la compagnia di Inès) la ventitreenne Lidia Fridman è una protagonista straordinariamente carismatica. Altissima e sottile, riesce a sembrare fragile, quasi infantile nel primo atto e poi, via via, più matura e consapevole, cosciente infine della ragnatela ordita intorno a lei - né va dimenticato che qui è la "maitresse du roi" a sdegnarsi verso l'amato, creduto interessato a onori e titoli, prima che questi scopra la verità. Questa delicatezza così forte risulta perfino magnetica quando fiorisce in un canto dal colore denso, brunito, esotico, eppure duttilissimo nella purezza della linea, nell'espressione della coloratura, specie là dove, nel duetto con il baritono, si estranea dalla realtà evocando in arabeschi vocali la natìa Andalusia. Lo spettacolo è così ben studiato che la differenza di statura fra i due innamorati (e fra il tenore e le voci gravi, tutte variamente imponenti) non balza mai all'occhio, e, anzi, i momenti in cui, improvvisamente, si nota la fisicità più minuta del Leone di Konu Kim, sembra quasi un valore aggiunto per il personaggio ignaro, irruente e travolto dagli eventi. Un valore aggiunto perché il giovane coreano sboccia come una rivelazione dopo la prova più timida di due giorni prima, in concerto come Nemorino [leggi la recensione]: canta benissimo, con estrema facilità in tutta la tessitura, con intenzione e chiarezza, ma soprattutto con una varietà di fraseggio e di colori di studiata intelligenza e coinvolgente, raffinata emozione. Nondimeno stupendo è il potente rivale Florian Sempey, interprete sempre pregnante nel piegare la ricchezza della voce alle esigenze anche stilistiche del belcanto; disegna un re sprezzante, vorace, autorevole, sensuale. Federico Benetti è sopraggiunto durante le prove a sostituire il collega previsto inizialmente e il suo monaco si afferma senza problemi con lo ieratico riserbo che si addice al personaggio, esattamente come Roberto Lorenzi dà vita a un Don Gaspar che, tutto all'opposto, è estroverso e maldestro deus ex machina della tragedia, personaggio dinamico e sfuggente, artefice anche contraddittorio di macchinazioni diaboliche anche quando fallimentari, un'altra delle grandi creazioni di questo spettacolo, personaggio felicemente consegnato alla sua dignità di protagonista e sottratto a tentazioni di macchietta.
Alla fine la commozione è palpabile, gli applausi interminabili, ad abbracciare anche la festa per Konu Kim, che proprio il giorno della prima festeggia il compleanno: quale regalo più bello di essere il primo interprete della storia di un'opera di Donizetti? E noi aspettiamo un altro regalo, che L'ange de Nisida entri in repertorio come merita.
foto Gianfranco Rota