L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Fuor del mar

 di Stefano Ceccarelli

Il Teatro dell’Opera di Roma mette in scena, per la seconda volta nella sua storia, l’Idomeneo, re di Creta di Wolfgang Amadeus Mozart. Lo spettacolo è un nuovo allestimento in coproduzione con Madrid, Copenhagen e Toronto, a firma di Robert Carsen, che sceglie la strada del messaggio politico pacifistico, regalandoci una lettura profonda e sensata. L’orchestra è diretta dall’eccellente Michele Mariotti, con un ottimo cast di cantanti. Lo spettacolo è un autentico successo.

ROMA, 16 novembre 2019 – L’Idomeneo, re di Creta era opera assai cara al suo compositore, W. A. Mozart, che vi riponeva notevoli speranze in quanto a fama duratura; Idomeneo, infatti, incarnava una solida tradizione francese ed è stata concepita proprio in quello spirito di grandeur: «il soggetto viene da una tragédie lirique del 1712 e, negli ampi divertissement coreutici, nel meraviglioso che volge in terribile con l’apparizione del mostro marino e nella presenza significativa del coro, risente sensibilmente delle influenze francesi che si vanno diffondendo in Europa» (R. Pedrotti, Storia dell’Opera lirica, 2019, p. 124). Per celebrare il suo ritorno a Roma dopo trentasei anni (la sua prima e ultima apparizione fu nel gennaio del 1983), quale migliore accoppiata di Mariotti e Carsen? Anticipo già che la serata è stata a dir poco magnifica, per qualità musicale e ricchezza di idee registiche.

Michele Mariotti, come comunica riccamente nell’intervista acclusa nel programma di sala, rilegge nuovamente una partitura «difficile, anzi difficilissima» (p. 128), con un occhio nuovo e, soprattutto, con una maggior competenza, avendo trovato «il bandolo della matassa» (p. 129). Il direttore, fra i più sensibili che mi sia dato di aver ascoltato, è capace di leggere le nervature che incardinano l’intera partitura con energia e tensione sempre vive; ma è anche in grado di scendere perfettamente nel microcosmo delle sfumature che la complessa partitura mozartiana propone – la versione presentata a Roma è, però, non quella ‘francese’ di cui parlavo sopra, ma quella viennese, cui sono stati tolti dei numeri, in particolare la sezione dei divertissement. Talvolta, si ha l’impressione che Mariotti dilati molto il discorso musicale, facendoci quasi rimanere senza fiato; talaltre, si coglie l’abbrivio di staccati e riprese: il tutto dosato con arte sopraffina. Mariotti, insomma, è un direttore straordinario; e ha perfettamente compreso come si dirige un monstrum come l’Idomeneo: con la giusta dose di chiarezza, profondità, sentimento ed effetto. Il risultato, neanche a dirlo, lascia a bocca aperta. Mariotti è in grado di far suonare l’orchestra e di far cantare il coro dell’Opera come da tempo non si udiva. Alcuni passaggi sono indimenticabili: le evocazioni naturalistiche e marine, brevi ma significativi passaggi della partitura, ma pure gli accompagnamenti, cristallini e tersi, alle arie dei cantanti. Mariotti ha nell’opera lirica il suo terreno d’elezione e nell’Idomeneo quello che deve diventare, direi, un suo cavallo di battaglia. Il coro, abilmente guidato dalle intelligenti mani di Mariotti, regala una serata impeccabile: canta compatto e potente, non solo nell’interpretazione più festosa (come in «Nettuno s’onori», I), ma soprattutto negli accenti atterriti e accorati del finale II («Qual nuovo terrore!») e di «Oh voto tremendo!» (III).

Il cast dei cantanti è ottimo e si armonizza assai bene con il direttore. Su tutti impera l’interpretazione sopraffina di Charles Workman nei panni di Idomeneo. La sua voce, squillante, è uno strumento versatile nelle mani di un cantante con molto gusto, che sa tirar fuori da un ruolo nient’affatto semplice tutte le sue potenzialità. Nei recitativi è scultoreo, teatrale, riuscendo a conferire sempre il giusto colore alle frasi, musicalmente sorrette dall’intelligente direzione di Mariotti. Nelle arie trascina il pubblico: si pensi a «Vedrommi intorno» (I) o, ancor meglio, alla trascinante «Fuor del mar ho un mar in seno» (II), affrontata splendidamente nell’irta selva delle sue fioriture. Idamante è cantato da un tenore, Joel Prieto. Mozart, però, scrisse il ruolo en travesti per un mezzosoprano, non per un tenore: se non erro, la riscrittura per tenore fu approntata da Richard Strauss, che presentò nel 1931 una versione molto rimaneggiata e interpolata di Idomeneo. La scelta di un tenore, dunque, benché Prieto canti assai bene e sia ottimamente riuscito nel ruolo, non si confà perfettamente al tipo di scrittura richiesta per il ruolo di Idamante, che mantiene nella sua parte nuance androgine inevitabilmente perse nella trasposizione tenorile – il ruolo fu, infatti, cucito sul castrato Vincenzo dal Prato. Come che sia, pur sentendosi qua e là la mancanza di una voce femminile (ad esempio, nel celebre quartetto «Andrò ramingo e solo», peraltro piacevolmente riuscito, Prieto non riusciva a dare nella tessitura bassa le stesse vibrazioni della corda mezzosopranile), l’interprete si distingue per un’eccellente performance. Dotato di una voce squillante, duttile e dolcemente vibrata, Prieto è una scelta eccellente; i duetti con Ilia sono commoventemente dolci e le sue arie sono cantate con emissione facile e naturale (si ricordi almeno «Non ho colpa, e mi condanni», I). Straordinaria è l’Ilia di Rosa Feola; l’italiana, anzi, dà una vera e propria lezione di canto su come s’interpreta il ruolo, riuscendo a cogliere tutta la tavolozza delle sfumature del carattere, dall’amor di patria frustrato, all’intenso sentimento erotico per Idamante e affettivo per Idomeneo. Vorrei qui ricordare, almeno, la sua delicatissima interpretazione di «Zeffiretti lusinghieri» (III), ma pure dell’aria d’apertura, «Padre, germani, addio!», il cui recitativo introduttivo è tra i momenti più ispirati della sua straordinaria interpretazione. Una spanna sotto i colleghi è l’Elettra di Miah Persson. Il motivo non è tanto il mezzo vocale, timbricamente interessante, quanto piuttosto il volume, talvolta calante (soprattutto nella prima sua aria, «Tutte nel cor vi sento»); la sua lettura del personaggio, dunque, appare alquanto sottotono, anche se si segnala una buona esecuzione dell’aria «Idolo mio, se ritroso». Questi i comprimari: Alessandro Luciano (Arbace: la sua interpretazione è certamente migliorabile), Oliver Johnston (Gran Sacerdote), Andrii Ganchuck (Una voce).

Oltre che, dunque, musicalmente ottima, questa produzione di Idomeneo vanta una straordinaria regia: quella di Robert Carsen. Quando sul palco ha lavorato un regista degno di questo nome, si ha la sensazione che tutto fili alla perfezione. Carsen cura anche le scene (assieme a Luis F. Carvalho) e le luci (con Peter Van Praet), firmando sostanzialmente ogni particolare di questa regia. Iniziamo dall’idea di fondo. Carsen, allineandosi ad un filone già ben collaudato, sposta la vicenda ai nostri giorni: i Cretesi diventano uno stato totalitario, pervaso da conflitti interni, mentre i Troiani vengono rappresentati come dei migranti. L’idea è resa evidentissima dalla costante presenza sullo sfondo del mare (che, essendo proiettato, viene fatto agitare a mo’ di tempesta quando la storia lo richieda); il mare allude, ovviamente, ai migranti, come pure la rete che sembra contenerli in una sorta di prigionia. Carsen sa benissimo di forzare il libretto: eppure, il suo canto pacifistico è straordinariamente coerente sulla scena. Lui stesso, nell’intervista, afferma che «il pacifismo è un’ipotesi»: Idomeneo non può essere considerata un’opera pacifistica, concentrandosi poco sullo stigma della guerra di Troia di per sé e molto di più sui consueti conflitti famigliari aristocratici e sull’amore ostacolato (in questo caso quello fra Ilia e Idamante), veri topoi del teatro tardo-settecentesco. Ciononostante, l’idea di Carsen – come ho detto – fila perfettamente: Idomeneo è il redivivo dittatore di un regime totalitario, temporaneamente retto dal figlio, che per amore di Ilia vuole liberare i profughi/migranti prigionieri troiani. Alla fine, trionferà proprio Idamante, che abolirà tale regime; questo gesto sarà rappresentato facendo togliere le divise a tutti i Cretesi. Carsen riadatta – per quanto può – la vicenda del libretto a una guerra civile fra le tante che attanagliano il Medio Oriente contemporaneo: la guerra di Siria e il conflitto israelo-palestinese sono i modelli cui mi pare essersi ispirato. In particolare, la scena della preparazione al sacrificio di Idomeneo, dove Carsen fa proiettare una foto di una città distrutta sullo sfondo, mi pare proprio riferirsi alla guerra civile siriana. Sul palco ci sono, oggettivamente, pochi materiali scenografici (una rete, uno sfondo, qualche tavolo spartano etc.), ma sono utilizzati con immensa sapienza. È questo il dono di un regista intelligente: creare la magia con quel poco che ha. In tal senso, vorrei citare, chiudendo, due scene, che mi sembrano istruttive. La prima è il naufragio di Idomeneo a Creta, dove Carsen, per creare un effetto umbratile, utilizza delle luci fredde e proiettate di lato (sarà un’apprezzata costante estetica della serata), per creare sulla scena delle ombre scultoree che avvolgono i personaggi. La seconda, invece, è la scena del sacrificio, molto suggestiva perché accompagnata da una cerimonia tipicamente militare e illuminata naturalmente da quattro taniche metalliche con dentro dei fuochi.

Insomma, una regia e una direzione intelligenti, quelle rispettivamente di Carsen e Mariotti, che donano al pubblico romano un Idomeneo che rimarrà indelebile nella memoria di chi l’ha visto.


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