L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

La misura di Aida

di Roberta Pedrotti

L'atteso ritorno di Aida chiude la stagione bresciana sotto l'egida della bacchetta intelligente di Francesco Cilluffo e del collaudatissimo spettacolo "in miniatura" di Franco Zeffirelli. L'impegno del titolo si misura bene sulle risorse del circuito regionale e, nonostante qualche ombra, l'esito finale è festoso.

Aida mancava dal Teatro Grande di Brescia dal 1957 e i melomani locali, com'è legittimo, scalpitavano per rivederla alle pendici del Cidneo, pur nei conforti offerti dalla breve distanza da Verona e da Milano, o anche dalla rappresentazione del 2003 in piazza Loggia organizzata dal compianto commendator Adriano Marenda per gli Amici dell'Istituto del Radio Olindo Alberti. La grandiosità areniana, i primati scaligeri, le finalità benefiche nella suggestione della piazza, è naturale, non potranno essere le armi affilate per il ritorno a Tebe nella sala del Massimo cittadino, in una stagione lirica di tradizione condivisa con altre piazze lombarde. Si deve puntare ad altro, con consapevolezza, consci che già la scelta del titolo rasenta l'ipotesi del "folle volo".

Si parte bene, nell'individuare lo spettacolo e la bacchetta. Diversamente dal Guglielmo Tell visto qualche settimana fa [leggi la recensione], il concetto fondante della produzione non fallisce: si riprende l'ormai storica "Aidina" zefffirelliana cesellata per il Teatro Verdi di Busseto, vale a dire un gioiello scenografico praticamente infallibile per un palcoscenico minuscolo, ma anche per uno di piccole o medie dimensioni. Infatti, anche a Brescia, l'Egitto in miniatura gioca a meraviglia fra suggestioni e allusioni, finzioni tanto sottili e spudorate da essere intelligenti e mai pacchiane. Tuttavia, quel che nei pochi metri di Busseto sapeva di miracolo, inevitabilmente in dimensioni più dilatate finisce per diventare un po' più ordinario, anche perché, in assenza di particolari talenti attoriali e di una regia che, nella ripresa di Stefano Trespidi, vada oltre alla regolamentazione generica di entrate e uscite in ossequio al modello originario, la recitazione mostra il fianco di qualche impaccio e di plastiche braccia protese del tempo che fu. Lo stesso gesto datato che a Busseto - con una miglior cura del dettaglio - sembrava affettuoso omaggio alla tradizione velato di volontaria ingenuità, qui si appesantisce e lascia vedere più la polvere che il fregio antico.

Intriga sulla carta e continua a convincere nei fatti, invece, la scelta di Francesco Cilluffo sul podio. Il maestro è ben noto a Brescia, sebbene in un repertorio decisamente meno nazionalpopolare, da Tancredi al Midsummer Night's Dream di Britten. Ora ricerca quell'Aida che all'aperto sembra impossibile, ma che in una sala di nemmeno mille posti sembra trovare il suo habitat naturale: cura cameristica della strumentazione (perché mentre il soprano canta "Patria mia, quanto mi costi" nei violini si senta il pianto, il dolore lancinante) senza indulgere in preziosismi leziosi, ma agile, asciutto, limpido e, quando la situazione lo richiede, non tanto magniloquente o pomposo, bensì intenso e solenne, come si nota nei cori delle sacerdotesse, quasi minacciosi, e nel compunto senso del sacro delle grandi scene del tempio e del trionfo. L'orchestra dei Pomeriggi musicali lo segue bene, e così il coro di OperaLombardia preparato da Diego Maccagnola. 

Assicurato il timone sotto l'ala protettrice di un grande scenografo e regista del tempo che fu e di un giovane concertatore, il cast si assortisce fra chi questo repertorio lo frequenta, oggi, con assiduità soprattutto nei teatri di tradizione e nel repertorio delle Fondazioni. L'orizzonte naturale non sarà magari quello delle prime linee di fuoriclasse, semmai di ardimentosi emergenti che cercano sul campo galloni e medaglie, di salde file di fanteria. L'opera, d'altra parte, non può vivere di sole stelle splendenti al massimo fulgore, stelle che spesso proprio militando nelle retrovie hanno modo di forgiarsi. Questa premessa, però, se esprime fiducia e benedice l'operazione, non esalta automaticamente il risultato. Anzi, l'ascolto di Maria Teresa Leva un paio di mesi dopo la sua Aida a Busseto in questo stesso allestimento [leggi la recensione] conferma i dubbi sollevati allora: l'ancor giovane soprano si destreggia con scaltri espedienti, ma non può nascondere una natura vocale inadatta al cimento, costantemente a rischio d'incrinarsi sotto il peso della parte, acuti e filati ghermiti in odor di falsetto. Perseverare in questo repertorio (che comprende Manon Lescaut e Cio Cio San!) non ci sembra, purtroppo, la miglior assicurazione di una lunga carriera. All'opposto, Samuele Simoncini sembra aver trovato la sua strada dopo percorsi tortuosi: a Brescia lo ricordavamo promettente Goro in Madama Butterfly, poi problematico Ernesto in Don Pasquale, ora torna dopo qualche anno con Radames, in una tessitura che gli è evidentemente comoda, come la scrittura. Il si bemolle di "Celeste Aida" non gli crea alcun problema (non esegue il morendo, ma va bene anche così) e il canto stentoreo del lirico spinto gli sarebbe congeniale. Latita ancora un po' troppo, però, il lavoro sulle dinamiche, piuttosto ristrette, e e si avverte la tendenza a nasalizzare quando si tratta non di singoli acuti (oltre al "trono vicino al sol" anche in "Sacerdote, io resto a te" sostiene le sue brave corone) ma di cantare in tessiture più alte o di sfumare. Sono sicuramente aspetti migliorabili, ma che non gli impediscono di riscuotere un caloroso applauso.

Cristina Melis è un'Amneris nel segno dell'impeto drammatico più che della morbidezza del legato, spietata nel duetto con Aida, vigorosa nella scena del giudizio. Parte molto bene Leon Kim, con un ingresso di Amonasro più attento del consueto al dettato verdiano, che esige un tono non tanto tribunizio e feroce quanto nobile e sottile; nel terzo atto si mostra più veemente, ma conferma una buona impressione complessiva. 

Fabrizio Beggi è un buon Ramfis, ancora molto giovane e dotato di mezzi interessanti. Francesco Milanese interpreta il Re, Alessandro Mundula un provato messaggero, Teresa Di Bari una sacerdotessa. 

Si esclama "Viva Verdi!", si applaude molto, con entusiasmo, per tutti. La stagione si chiude in festa e si celebra l'opera in quanto tale, anche se non tutto è stato memorabile, anche se lo spettacolo ha avuto luci e ombre, perché comunque "Se quel guerrier io fossi", "Numi pietà", ""Gloria all'Egitto ad Iside", "le foreste imbalsamate" e via così fino a "Oh terra addio" sono nel sangue, e ,comunque vada, poi sarà bello uscire nell'aria frizzantina della città addobbata commentando, citando, rievocando. In attesa di altre Aide, di altre opere note o meno note, ma sempre vive.

foto Alessia Santambrogio


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