Musica nelle tenebre
di Luigi Raso
L'apertura della stagione lirica partenopea con il capolavoro di Čajkovskij ha il suo punto di forza nella concertazione di Juraj Valčuha. Dispiacciono, allora, ancor più i tagli anacronistici alla partitura in ossequio a un'impostazione registica, per quanto assai ben realizzata, assai monocorde.
Napoli, 12 dicembre 2019 - Tri karti, tri karti, tri karti. Tre note più volte ripetute, un’unica ossessione, quella del gioco.
È possibile affermare che Pikovaja Dama germini da questa microcellula musicale di tre note che a mo’ di ossessione appare mefistofelicamente nel corso dell’opera? In parte sì; ma ciò è solo parzialmente vero, perché nel dramma di Čajkovskij c’è anche altro, tanto altro. C’è il destino, forza ineluttabile e malvagia che travolge chiunque volesse solo ipotizzare di poterla controllare. Una visione della vita dominata dal Fato - inteso, secondo l’accezione dello stesso Čajkovskij, “forza nefasta che impedisce il nostro slancio verso la felicità” - al quale si inchinò e di cui traspose in musica i trionfi anche lo stesso compositore russo, anzi, “il compositore più russo di tutti i musicisti del mio paese” (definizione di Igor Stravinskij).
E nell’altro che compone il polittico di Pikovaja Dama c’è la rievocazione del mondo musicale settecentesco, principalmente quello espresso da quel Mozart, grande amore della vita del compositore; è un mondo ideale, lieve, pieno di grazia e luce, un rifugio dalla realtà. Ma è soprattutto un’oasi di ordine, di armonia, prepotentemente contrapposta alle passioni arroventate e schizofreniche che pervadono l’opera.
Il ‘700 musicale mozartiano (o, più correttamente, alla Mozart) entra nell’opera per rischiarala momentaneamente, così come l’Allegro con grazia dell’ultima Sinfonia “Patetica” è un refolo di effimera serenità che irrompe nella vita, che volge al termine, del compositore russo.
E, in ultimo, come non includere nell’ altro presente in Pikovaja Dama la genuina anima della Santa Madre Russia che pulsa nei canti popolari intonati dal coro?
Purtroppo lo spettacolo di Willy Decker, prodotto dall’Opera di Stato di Amburgo, e ripreso al San Carlo da Stefan Heinrichs, formisce una lettura unidirezionale e monolitica del dramma: l’attenzione è posta esclusivamente sull’ossessione distruttiva di Hermann, omettendo volutamente tutto ciò che dovrebbe (anzi, deve) esserci nel contorno, mai tanto necessario come per Pikovaja Dama.
La regia scaraventa, infatti, nel buio tutta l’azione, in un mondo nel quale non v’è neppure una flebile speranza di redenzione, dominato dalla ossessione del gioco, dalla morte, percorso da fantasmi/allucinazioni. Tutto l’altro di cui si è accennato semplicemente è omesso, in aderenza a una visione cupa, disperata, greve, allucinata, nella quale non aleggia né malinconia, né quel sognare una vita migliore.
Lo spettacolo è costruito su un impianto scenico - di Wolfgang Gussmann, che cura anche costumi e le luci - dominato da tinte scurissime, claustrofobico, con al centro il tavolo da gioco, crocevia del dramma. Pochi altri elementi: una bara, la Nera Signora con tanto di falce, tante carte, maschere, effigi di teschi. Perfino Caterina la Grande, dopo il suo sontuoso ingresso alla festa, indossa una maschera che allude chiaramente a un teschio. Insomma, per un’inaugurazione di una nuova stagione lirica e di balletto non proprio il viatico più beneaugurante!
Non manca nella costruzione registica una cura quasi maniacale dei dettagli della recitazione: Stefan Heinrichs ha a disposizione degli straordinari attori-cantanti ed è bravissimo a farne emergere tutte le potenzialità, curando anche gli aspetti minimi. In scena i protagonisti si muovono, si scrutano intensamente: in una parola, recitano e cantano, fanno teatro. Appare molto curata anche la mimica facciale, soprattutto quella, allucinata e venata di follia, di Misha Didyk/Herman.
Purtroppo una lettura così cupa del dramma determina l’eliminazione di ogni riferimento alla luce, alla primavera, stagione che fa da cornice iniziale all’intreccio: a farne le spese è il coro iniziale dei bambini nel Giardino d’Inverno finalmente illuminato dal sole primaverile e, addirittura, l’intero Intermezzo “La sincerità della pastorella” con annessa sarabanda dell’atto secondo.
In questi stessi giorni alla Scala si ripropone la Tosca del 1900 con una manciata di battute in più, al Teatro dell’Opera di Roma vanno in scena Les vêpres siciliennes in versione integrale, mentre al San Carlo Pikovaja Dama viene anacronisticamente mutilata. La scelta di tagliare queste due scene, seppur conseguenziale alla (discutibilissima) lettura registica, appare comunque musicalmente inspiegabile. Francamente stupisce che sia stata avallata da un direttore scrupoloso e attento ai minimi particolari qual è Juraj Valčuha.
Non è affatto “poco male!” che non sia stata ascoltata l’opera nella sua interezza, perché la resa musicale complessiva è ottima, grazie orchestra e coro in stato di grazia.
Valčuha scava la partitura nei meandri, cavandone i colori e i più sottili giochi melodici e armonici; quello del direttore slovacco è un calligrafismo che però non perde mai di vista il filo del discorso musicale e la sua unitarietà, in un procedere magnetico ed elettrizzante dell’azione.
L’orchestra merita un encomio per la bellezza dei suoni, la compattezza dell’organico, la precisione delle sezioni, l’ottimo suono degli archi e degli ottoni, precisi e coesi, tanto in buca quanto fuori scena: sicuramente una delle prove orchestrali più convincenti degli ultimi anni, la conferma che direttori del calibro di Valčuha riescono a far emergere le tante potenzialità della compagine. La sua è un’orchestra che palpita, sempre aderente alla drammaturgia, livida, inquietante e incalzante, ma che sa ben abbandonarsi al fluire che si aggroviglia del melodizzare di Čajkovskij.
Di grande intensità è il tema d’amore che chiude l’introduzione all’Atto primo, così come le note ribattute che dipingono l’attesa frenetica della Contessa da parte di Herman; toccante, infine, il velo musicale che cala, quasi un Requiem, sulla fine di Herman, laddove Valčuha, la sua orchestra e il coro trovano accenti e colori di sentita compassione e commozione.
Fa benissimo, infatti, anche il coro, il quale si presenta compatto, con voce piena, soprattutto nel settore maschile, prodigo di movimenti, partecipe, ben amalgamato con l’orchestra, a proprio agio nell’intonare canzoni dal sapore popolaresco, così nel contribuire a creare l’atmosfera arroventata della sala da gioco.
Benissimo anche il cast vocale, che vede Misha Didyk impegnato nella parte di Herman: il suo è un personaggio tormentato, in pieno disfacimento psicologico. Didyk affronta e risolve la temibile e insidiosissima scrittura con sicurezza, sfoggiando voce robusta, dal colore scuro, sicura negli acuti e, soprattutto, crea un Herman espressivo, ottimamente recitato e cantato.
Si fa notare per il bel timbro e capacità di recitazione il Conte Tomskij di Tomas Tomasson, così come il Principe Eleckij, sempre elegante nella linea di canto, di Maksim Aniskin.
Appassionata e disperatamente innamorata è la Liza di Anna Nechaeva, dalla voce corposa, ben timbrata, squillante, bene emessa, espressiva e dalla bella figura; la Nechaeva si dimostra immediatamente degna coprotagonista dell’Herman di Misha Didyk , dando vita, nel primo atto, a un trascinante duetto d’amore.
La Polina di Aigul Akhmetchina riesce a trovare la giusta cifra interpretativa della romanza del secondo atto, intrisa com’è di intimismo, dolcezza e melanconia anticipatrice di quella cechoviana.
Julia Gertseva, nei panni della Contessa, corre il rischio di subire l’involontario quanto automatico paragone con Raina Kabaivanska, la quale nell’ultima riproposizione dell’opera al San Carlo (gennaio 2005) interpretò magistralmente la cruciale quanto breve parte della ex “Venere moscovita”. Quasi quindici anni fa il grande soprano bulgaro, pur in presenza di una organizzazione vocale ormai al capolinea, scolpì una Contessa che per magnetismo e carisma, per il peso drammatico conferito ad ogni singola parola scandita, resta nella memoria di chi scrive tra le più vive e indimenticabili emozioni vissute a teatro. La Gertseva ha dalla sua una voce compatta, dal bellissimo timbro ambrato; canta bene, anzi fin troppo, tanto da apparire poco convincente - pur accantonando, con difficoltà, il ricordo della Kabaivanska - nella nenia, tutta in bilico tra sonno e veglia, del "Je crains de lui parler la nuit".
Tutti in linea con l’alto livello musicale della produzione i ruoli secondari, così essenziali nell’economia drammaturgica e musicale di Pikovaja Dama: fanno bene il Čekalinskij di Alexander Kravets, il Surin di Alexander Teliga, la Governante di Anna Viktorova, la Maša di Sofia Tumanyan, il Čaplickij/Il cerimoniere di Gianluca Sorrentino, il Narumov di Seung Pil Choi.
Una menzione per il bravissimo Roberto Moreschi al pianoforte in orchestra che ha saputo accompagnare con tocco leggero e melanconico il duetto di Liza e Polina così come la bellissima romanza di quest’ultima nel Quadro secondo dell’Atto primo.
Il giudizio finale del pubblico del San Carlo - il quale al termine dello spettacolo, fa piacere notare, resta seduto ad applaudire - è lusinghiero per tutti, premiando gli artefici musicali dello spettacoli con applausi calorosi, convinti e prolungati che diventano ovazione per Juraj Valčuha, festeggiato con fragorosi battiti di piedi anche dall’orchestra schierata nel golfo mistico.
Miglior ouverture di stagione, almeno per quanto attiene all’aspetto musicale, appare difficile immaginare.ù