Un primo incontro molto fortunato
di Alberto Spano
Felice debutto a Bologna per il diciottenne violinista americano Kevin Zhu e la ventinovenne direttrice lituana Giedré Šlekyté in un programma tutto dedicato a Čajkovskij
BOLOGNA, 10 aprile 2019 – C’era molta attesa al Teatro Comunale di Bologna per il terzo concerto sinfonico del 2019, in scena due musicisti assolutamente sconosciuti ai più, ma dal ricco e variegato curriculum: il diciottenne violinista americano Kevin Zhu e la ventinovenne direttrice lituana Giedré Šlekyté. Due nomi nuovi, assolutamente nuovi. Quando a calcare le scene ci sono degli sconosciuti, si acuisce la curiosità, poiché la curiosità per il nuovo, per l’inascoltato è sicuramente alla base della vita musicale di una comunità raccolta attorno alla sua orchestra e al suo teatro. Succede qualcosa di veramente magico, quasi un flusso musicale e umano, una specie di “primo incontro” che suscita interesse, a prescindere dai valori musicali e dai poteri contrattuali. Succede che un’orchestra formata da 60/70 professori che suonano assieme da decenni, incontri per la prima volta un maestro il cui nome dice qualcosa solo ai direttori artistici (e non a tutti), i quali si assumono la responsabilità di presentarli all’orchestra, uno “strumento” vivente che non sempre risponde positivamente di fronte al nuovo. Il pubblico avverte queste dinamiche inconsapevolmente, anche perché pur avendo provato i professori uno o due giorni o, sperabilmente, qualche giorno in più, è poi il concerto in pubblico la cartina di tornasole, il termometro assoluto del rapporto direttore/orchestra.
Nelle stesse ore in cui in Italia sui social lievitano polemiche e discussioni anche accese sul ruolo di direttori d’orchestra geniali e rapinosi quali Kirill Petrenko e Teodor Currentzis, messi a confronto con i grandi del podio di ieri e dell’altro ieri, ecco dunque presentarsi per la prima volta sotto le due torri la ventinovenne direttrice lituana Giedré Šlekyté, il cui curriculum vanta studi a Graz, Lipsia e Zurigo, master class con Haitink, Muti e Venzago, piazzamenti d’onore (ma non vittorie) in concorsi internazionali quali il Michaelides di Cipro, l’MDR Competition di Lipsia, il Concorso per Giovani direttori di Salisburgo, il Concorso Malko di Copenaghen e una residenza biennale come Kapellmeister allo Stadttheater di Klagenfurt, in Germania, paese dove è molto richiesta e dove risiede. Ascoltata solo in Čajkovskij (Concerto per violino e Sesta Sinfonia), Šlekyté mostra sicurezza, gesto elegante e gusto musicale di rara introspezione. Fin dalle prime note del Concerto s’è capito che Šlekyté riesce ad ottenere un suono, un certo tipo di suono, già molto personale, che – almeno in Čaikovskij – produce un bel timbro brunito orchestrale (uno dei migliori ascoltati negli ultimi tempi), un eccellente impasto strumentale, una compattezza che fa ben sperare per il futuro dell’organico, a tutt’oggi orfano di un direttore stabile. Nonostante l’esiguità delle prove, la Šlekyté ha potuto esibire questo suo suono caldo, dolce, mai volgare, fraseggi solidi e morbidi, sonorità educate, grande chiarezza d’idee, notevole senso strutturale della musica e contagiosa scorrevolezza. Nel suo Čajkovskij pacato, maturo e saggio si potrà forse rimpiangere qualche accensione romantica, qualche slancio eroico e trionfalistico nelle sezioni più appassionate, anche per via di un gesto a volte eccessivamente didascalico. Ma è un Čajkovskij, quello della “Patetica” di Šlekyté, al quale non manca certo l’elemento intimistico, sofferto, riflessivo, immaginifico. Splendido in tal senso il passo lievemente titubante inferto al quarto movimento, “Adagio lamentoso. Andante”, in cui l’espressione dolente è esibita con nobilissima tensione, quasi un pianto dimesso, un dolore soffocato, trattenuto, ma profondo. Brava la Šlekyté a “tenere” l’orchestra come imbrigliata in un suono ovattato, quasi sotto coperta, con screziature timbriche di raffinatissima natura, evidenze solistiche fatte emergere con classe, respiri interni pulsanti come in un unico organismo sonoro. E altrettanto brava Giedré Šlekyté a preparare un terreno altrettanto nobile e quadrato al violinismo sicuro, virtuoso ma non virtuosistico del prodigioso solista americano Kevin Zhu, forse il miglior Premio Paganini degli ultimi vent’anni, in una delle sue prime uscite italiane importanti dopo la clamorosa vittoria a diciassette anni nell’aprile del 2018 a Genova. Bisogna risalire a vent’anni fa, esattamente al fortunato 1998, in cui vinse l’alloro il grande Ilya Gringolts, per fare un paragone con l’altrettanto fortunato violinismo, virtuoso e maturo, scintillante ed elegante del giovane Kevin Zhu (fra l’altro il più giovane vincitore nell’intera storia del Concorso Paganini). Un virtuosismo assoluto il suo, quasi accecante nella sua incredibile purezza, che un po’ ricorda la nobile lezione del giovane Accardo e la classe infinita di Itzhak Perlman, ma che s’ammanta di una sua precipua personalità che regala al concerto čaikovskijano accenti nuovi e fraseggi quasi classici nella loro canoviana perfezione, fra l’altro molto ben condivisi dall’altrettanto elegante Šlekyté sul podio. Sbalordimento e meraviglia destano poi i due Capricci paganiniani (l’ultimo e il primo), sciorinati come bis da Zhu con una classe, un suono e un virtuosismo talmente perfetto, semplice e stellare, con passaggi tecnici stupefacenti esibiti con la nonchalance dei virtuosi di razza sullo Stradivari “Lord Wandsworth” del 1722, da far scoppiare alla fine il Teatro Comunale in un boato di consenso abbastanza raro. Due musicisti che il pubblico riascolterà volentieri in altri repertori, e che il teatro dovrà farsi carico di riproporre presto.
foto Andrea Ranzi/ Studio Casaluci