L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Mors et vita duello

 di Roberta Pedrotti

La stagione sinfonica del Comunale di Bologna prosegue con la grandiosa riflessione della Seconda sinfonia di Mahler affidata all'esperta bacchetta di Asher Fisch.

BOLOGNA, 14 aprile 2019 - Resurrezione. Dal lutto e dalla discesa alla terra fino alla rinascita e alla luce: una metafora che va al di là delle religioni, che le attraversa come manifestazione dello spirito umano dal mito più antico fino a oggi, quando vediamo anche le pietre millenarie sospese al filo della fatalità, bruciare per risorgere dalle ceneri. Come le foglie sono le stirpi degli uomini, precarie su un ramo, svaniscono in un soffio, mentre altre, dallo stesso ramo, rinascono. E come l'esistenza fisica, così anche lo spirito, e perfino le sue opere materiali create per ridersi del tempo, al tempo, al fato sono soggetti, ricordando il monito di Dante nel De Monarchia a conservare e, nello stesso tempo, a continuare a creare: “gli uomini […] come sono arricchiti dalla fatica degli antichi, così s’affatichino per dare delle medesime ricchezze a quelli che dopo loro verranno”.

Resurrezione, dunque. La seconda sinfonia di Mahler sembra cadere provvidenziale, riflessione profonda ed eterna nel momento della rinascita primaverile (se, in tali disordini climatici di primavera si può parlare fuori dalle scansioni astronomiche) e di ricorrenze religiose, ma soprattutto conforto e stimolo di fronte all'incalzare della cronaca. La sinfonia è insieme micro e macrocosmo, percorso interiore e visione del mondo, dal dramma della morte dell'eroe, dal dibattersi del suo spirito indomito nel lutto ineluttabile che procede offrendo pace ma senza dare scampo. Nel tessuto finissimo di allusioni e rimandi, autocitazioni e riminiscenze, Mahler, tuttavia, uno scampo lo trova. Ecco riecheggiare l'ironia spietata della Predica di Sant'Antonio ai pesci, che pure conosce la dolcezza e l'arguzia di un sinuoso guizzo klezhmer, di un sapido, affettuoso quadretto; ecco l'avvolgente danza viennese, ecco esplicite allusioni a Wagner, o ancora a un'accattivante cantabilità melodrammatica. Ecco la sterminata ricchezza strumentale e spaziale, che coinvolge voci, testi, timbri, disloca strumenti e sezioni oltre il palcoscenico. Costruisce una sorta di teatro musicale astratto e, sulle spalle del modello beethoveniano, sfida i limiti della sinfonia per plasmare il suo discorso e articolarlo in direzioni e dimensioni inesplorate. Sempre con una logica ferrea, Mahler fonde i linguaggi in uno spazio onirico ma non irrazionale. Lo spazio profondo della cognizione della morte, dell'esistenza, della rinascita, dell'eterno ciclo della vita e dello spirito.

Eseguire la Seconda di Mahler è una sfida, e per le dimensioni poderose dell'organico, e per la sua esigente varietà, e per le difficoltà tecniche e interpretative. Il Comunale di Bologna si propone questa sfida nell'arco di un'ambiziosa trilogia mahleriana, aperta, con l'inaugurazione della stagione sinfonica, dalla Sesta e dalla bacchetta di Valčuha [leggi la recensione], prima dell'epilogo nel prossimo novembre con Dan Ettinger e la Quinta. Ora sul podio c'è Asher Fisch, un'ottima scelta, ché il direttore israeliano ha consolidata confidenza con Mahler unita al robusto mestiere di chi, sul podio, sa sempre far quadrare bene i suoi conti. Se non apparisse, di primo acchito, riduttivo, si potrebbe parlare del valore del kapellmeister, inteso per la sua capacità di preparare, controllare, formare coerentemente una lettura compensando anche a eventuali difficoltà tecniche: la sinfonia è di grandissimo impegno per gli strumentisti, tanto più che queste titaniche partiture non sono pane quotidiano per i complessi di una fondazione lirica. Fisch li guida in una prova in crescendo, una vera e propria Risurrezione progressiva, con una cura particolare alla complessità contenutistica dei movimenti centrali. Nell'articolazione dei temi, il direttore si orienta con chiarezza, saldo punto di riferimento e sostegno anche per l'intervento delle voci, quando spicca la personalità di Lioba Braun. Il mezzosoprano tedesco non celerà nel timbro le quasi sessantadue primavere orgogliosamente dichiarate anche nel programma di sala, ma con esse porta in dote anche il carisma discreto di un canto intimamente sentito e sapientemente soppesato. Inevitabilmente, il soprano Charlotte-Anne Shipley rimane un po' in ombra: il suo attacco sottilissimo, che pare sorgere da un tutt'uno con il coro – in ottima forma e ben preparato da Alberto Malazzi – è senz'altro suggestivo, e spiace che poi la voce non s'illumini d'uno smalto più brillante.

L'apoteosi finale, in cui la grandiosità non rinnega qualche asprezza (e, in effetti, non tanto di consolatoria bellezza, ma di coscienza amara abbiamo bisogno nel risorgere e risollevarci), merita calorosi, prolungati applausi. Un giusto premio al coraggio che non si è tramutato in folle volo e alla volontà che, da principio vitale da Schopenhauer a Nietzsche, in Mahler si fa principio di pensiero e conoscenza.

foto Andrea Ranzi/ Studio Casaluci


 

 

 
 
 

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