Il vento della modernità, il sole della tradizione
di Alberto Ponti
Il violinista danese e direttore danese sale sul podio dell'OSN Rai con un programma a cavallo tra Otto e Novecento. Brillante ma a tratti convenzionale la prova del giovane talento orientale del pianoforte nel Concerto in sol di Ravel
Nell'odierno panorama internazionale Nikolaj Szeps-Znaider si pone come una figura di assoluta versatilità, con pochi eguali. Il pubblico torinese ne ha avuto un saggio in poco più di una settimana, ascoltandolo dapprima come violinista solista nel concerto di Elgar, poi in formazione da camera con le prime parti dell'Orchestra Sinfonica Nazionale e infine, giovedì 11 e venerdì 12 aprile, in veste di direttore sul podio della stessa compagine.
L'apertura della serata era affidata alla rapsodia Taras Bulba (1915-18), uno dei lavori più noti di Leoš Janáček (1854-1928). Ispirato all'omonimo racconto di Gogol, il brano si distingue per una concezione timbrica e armonica avanzatissima (i primi schizzi risalgono addirittura al 1910!), accoppiata a un'originale struttura che prende a prestito tre momenti della storia del condottiero cosacco del Seicento (le morti dei due figli, seguite dalla propria immolazione per la causa della libertà dell'Ucraina dominata dai polacchi) per esprimere sentimenti contrastanti, ora drammatici ora lirici, con radicale ed incisiva libertà espressiva. La direzione di Szeps-Znaider si distingue per capacità analitica di valorizzazione di ogni settore dell'orchestra, con gli ottoni in grande spolvero, lucidi e taglienti come non mai, nel ricreare l'atmosfera che dal febbrile e cupo fatalismo del primo episodio (Morte di Andrij), attraverso gli aspri e pungenti accordi della successiva Morte di Ostap approda al visionario eroismo della Profezia e morte di Taras Bulba.
Un fil rouge che lega l'opera del maestro ceco al notissimo Concerto in sol maggiore per pianoforte e orchestra (1929-31) di Maurice Ravel (1875-1938) si può trovare nell'affermazione di Massimo Mila dei primi anni '60 del '900: “Se Janáček fosse stato francese, oggi sarebbe importante e famoso quanto Ravel”. Da allora, per fortuna, molto è cambiato ma rimane attuale l'acutezza dello studioso e del critico che fu tra i primi ad affermare l'importanza per la musica dell'intero Novecento di un autore all'epoca ancora largamente misconosciuto nell'Europa occidentale.
Sarebbe vano ricercare sotto le mani del ventiquattrenne sudcoreano Seong-Jin Cho, seduto per l'occasione alla tastiera, la sublimazione di quell'esprit de finesse che sembra attualmente la cifra di lettura dominante del pezzo, imposta dalle stupefacenti performance di una Martha Argerich, che trasforma la raffinatissima scrittura in un caleidoscopio di vellutate geometrie argentee e trasparenti. Il tocco del giovane solista è denso e intriso di una punta di languore, anche nelle eleganti filigrane del delicato Adagio assai centrale. Una tecnica impeccabile abbinata tuttavia ad una certa uniformità e mancanza di fantasia nei tempi veloci caratterizzano l'esecuzione subalpina, laddove il dialogo con il magico linguaggio di Ravel, in grado di inglobare influssi del jazz e della musica leggera all'interno di un linguaggio sempre coltissimo, offrirebbe molteplici appigli per rendere la sensazione di imprevedibilità e di vivacità quasi improvvisativa che contribuiscono alla perenne freschezza della pagina. L'orchestra asseconda, con un suono accattivante nella dinamica ma spesso scuro e pastoso, questa idea di un Ravel che pare a tratti curiosamente tardoromantico, rivelando come in fondo le etichette e le definizioni troppo stringenti dello stile del grandi compositori escludano altri aspetti meno visibili ma allo stesso modo presenti sotto la superficie, grazie alla poliedricità di menti inventive che seppero assorbire e tener conto della miglior produzione di ogni epoca precedente. Spruzzato di una garbatezza irrequieta, in totale sintonia con lo spirito chopiniano, è invece parso il Notturno in mi bemolle maggiore op. 9 n. 2 concesso tra gli scroscianti applausi della platea.
Un'aura di calore e intensità ammanta, dopo l'intervallo, la Sinfonia n. 9 in mi minore op. 95 Dal nuovo mondo (1892-93), l'opera di gran lunga più celebre di Antonín Dvořák (1841-1904). Il carisma di Szeps-Znaider è a tratti impetuoso: eliminato il ritornello dell'esposizione dell'iniziale Allegro assai, anche nel Largo l'oasi lirica della melodia del corno inglese viene tosto contrastata dai guizzanti interventi degli altri legni, puntellati dai pizzicati dolci ma decisi dei contrabbassi, prima di tornare con un ultimo canto nostalgico e cordiale che la bacchetta danese riesce a far riecheggiare, nelle ultime battute, con una singolare sospensione di tempo. Tutta la robusta energia di Dvořák, innervata dal sentimento popolare della sua terra rivissuto attraverso un alto magistero di scrittura, scaturisce ancora in modo irresistibile dallo Scherzo e dall'Allegro con fuoco conclusivo, concertati calibrando con invidiabile contezza la padronanza delle possibilità dei singoli strumenti e le ragioni di un'espressività immediata e avvincente ed infiammando una sala, stracolma anche di giovani e ragazzi, che proclama un sentito e riconoscente tributo agli interpreti e alla loro guida.