L'alchimia degli opposti
di Luigi Raso
Neeme Järvi e Denis Matsuev, direttore e pianista fra sfumature e vigore, propongono un approccio complementale al terzo concerto di Beethoven. La Quarta Sinfonia di Brahms ribadisce la misura di una bacchetta che sa essere incisiva e incalzante senza fronzoli.
NAPOLI, 25 ottobre 2019 - Discendente da uno costola del Concerto in do minore K 491 (1786) di W.A. Mozart, il Concerto per pianoforte e orchestra n. 3 in do minore, op. 37 (1800) di Ludwig van Beethoven segna l’approdo, dopo i precedenti due concerti per pianoforte e orchestra, del musicista di Bonn a un linguaggio musicale personale, eroico, tipicamente beethoveniano. L’impeto eroico, quasi marziale, del primo movimento, un lungo Allegro con brio, dopo l’esposizione orchestrale del tema, prende corpo nel suono potente ed energico del pianoforte di Denis Matsuev, il quale, dopo due perentorie scale ascendenti, con vigore e suono orientato tendenzialmente sul forte, procede a sviluppare il primo tema.
Il pianista russo immediatamente mostra la propria ottica interpretativa: perentorio, approccio vigoroso alla tastiera, suono potentemente scolpito, nitido, perfetta intelligibilità di ogni singola nota e di ogni ornamento; un bagaglio tecnico sbalorditivo che trova compendio e summa nella cadenza del primo movimento eseguita con approccio percussivo. Il Matsuev celebrato interprete di Rachmaninov emerge proprio dai passaggi virtuosistici e in questa funambolica cadenza.
A fronte di un approccio così muscolare, spiccatamente vigoroso, seppur suggestivo nel profluvio della luminosità e incandescenza dei suoni, è l’intima cantabilità del Largo del movimento centrale (nella tonalità di mi maggiore) a farne le spese: il tocco perentorio e sbalzato appare sottrarre intensità e introspezione al sublime a solo del pianoforte che apre il movimento, cui segue l’intimo dialogo orchestrale.
Si nota immediatamente, tuttavia, il bel colore della fusione tra il flauto e gli archi nel “dialogo” con il pianoforte. La direzione di Neeme Järvi è asciutta e misurata: ricava dall’orchestra del San Carlo, sempre precisa e ben amalgamata nel pesi e contrappesi sonori tra le sezioni orchestrali, un suono morbido, duttile, dal bel colore, sul quale il pianoforte di Matsuev ha modo di librarsi con corposità.
I diversi approcci alla partitura beethoveniana di Järvi e Matusuev producono una lettura di estremo interesse, suggestiva proprio per la sua complementarietà, nella quale l’orchestra, soprattutto nel Largo centrale, è chiamata a levigare e ingentilire il discorso musicale virile del pianoforte.
Il Rondò. Allegro del terzo movimento trova concordi solista e direttore nell’evidenziare l’anima spensierata del brano, nel quale Matsuev trova l’occasione per dare un saggio del proprio virtuosismo “percussivo” e sciorinare incandescenti guizzi sonori.
Denis Matsuev riceve una convinta ovazione e regala due bis: si inizia con una scintillante esecuzione del breve Pièce per piano n. 2 op. 76 di Jean Sibelius per poi proseguire con la trascrizione pianistica di Anton Ginzburg del brano “Nell’antro del Re della montagna” tratto da Peer Gynt di Edvard Grieg, dal demoniaco virtuosismo risolto con estrema naturalezza da Matsuev, che si congeda da un pubblico galvanizzato dalle sue doti tecniche.
La seconda parte del concerto vede l’orchestra del San Carlo impegnata in uno dei capolavori del sinfonismo di ogni epoca, la Sinfonia n. 4 in mi minore per orchestra, op. 98 di Johannes Brahms. La composizione (del 1885) costituisce l’occasione per evidenziare l’affidabilità e l’alto livello tecnico raggiunto dalla compagine sancarliana, che appare compatta in tutte le sezioni, incline a rispondere al minimo cenno del direttore, con suono degli archi “italiano”, vibrante e incisivo e con fiati precisi e luminosi.
La lettura della Sinfonia che dà Neeme Järvi è asciutta, estremamente tesa nella scelta di staccare tempi rapidi: si ha l’impressione che il discorso musicale, il fraseggio proceda senza fronzoli, puntando all’immediatezza delle linee melodiche e della costruzione degli sviluppi e, in definitiva, alla esuberante inventiva musicale che connota l’intera composizione.
La Quarta sinfonia, che con il celebre incipit dà l’impressione di non soffrire i preamboli, appare dunque particolarmente adatta all’approccio interpretativo di Neeme Järvi, attento alla ricerca di un senso musicale compiuto e immediato. Sin dal primo movimento - Allegro non troppo - l’Orchestra del San Carlo è immersa in un vortice musicale al quale seguono le oasi melodiche dalla rara intensità poetica dell’Andante moderato del secondo movimento, nel quale si segnala la cura nell’impasto timbrico degli archi con i legni e il calore dell’esposizione del tema principale da parte dei violoncelli; particolarmente intensa, infine, la ripresa del secondo tema da parte dei violini, supportati dai timpani, che sfocia in un fortissimo di grande intensità emotiva e ben sviluppato nel crescendo, sonoro ed emotivo, dall’orchestra; di gran pregio, per qualità sonora e susseguirsi delle dinamiche, è il cantabile esposto dagli archi sul finire del movimento, nel procedere fluido del dialogo tra archi e fiati.
Con l’ Allegro giocoso del terzo movimento si torna in un vortice dionisiaco improntato al sincrono e all’equilibrio sonoro tra famiglie orchestrali ben sostenuto dagli interventi delle percussioni.
L’ultimo movimento - Allegro energico e appassionato - è imperniato su una ciaccona, ovvero su variazioni su un tema ostinato esposto da ottoni precisi e sicuri. Neeme Järvi trascina l’orchestra in questo gioco con sicurezza, trovando la tinta giusta per ciascuna variazione, in un discendere repentino verso la materia musicale più incandescente e vibrante.
Un’esecuzione così intensa di uno dei capisaldi del repertorio sinfonico non può che avere come corollario applausi scroscianti, per Järvi e per l’Orchestra del San Carlo.
Il direttore fa omaggiare le prime parti e poi le singole sezioni dal pubblico visibilmente soddisfatto e plaudente.