L'incanto e il tormento
di Alberto Ponti
James Conlon chiude il ciclo dei primi tre concerti della stagione passando da una Pastorale beethoveniana di classica compostezza ai furori modernisti di una delle sinfonie più sperimentali e iconoclaste di Prokof'ev
TORINO, 25 ottobre 2019 - Esiste una folta schiera di persone che ritengono che nulla accada per caso. Ecco allora che dietro qualsiasi avvenimento, soprattutto già trascorso, degno di attirare la loro attenzione intravedono presagi, richiami, correlazioni vere o presunte, come se la complessità del mondo fosse riducibile a un pensiero umano, suggestivo ma arbitrario. Noi non apparteniamo a questo novero ma, cercando nei limiti del possibile di praticare un distacco che non va confuso per cinico disincanto, non possiamo esimerci dal constatare quanto il destino spesso si diverta a stuzzicare curiose coincidenze. La realtà, anche qualora non la superi, rimane la fonte di ispirazione più potente per la fantasia e così in quel di Torino accade che l'incendio del tetto della Cavallerizza Reale, straordinario e trascurato complesso barocco alle spalle dell'auditorium Rai, abbia luogo proprio all'inizio della settimana in cui l'orchestra di casa ha in programma la Terza Sinfonia di Sergej Prokof'ev, tratta dalla sua opera L'angelo di fuoco. E solo grazie al prontissimo intervento dei pompieri le fiamme non hanno lambito la sala da concerto e il suo prezioso archivio musicale.
Tutto è bene ciò che finisce bene, e così, sotto la bacchetta di James Conlon nell'ultimo dei tre concerti consecutivi che lo hanno visto protagonista in questo avvio di stagione, giovedì 24 e venerdì 25 ottobre ha potuto dipanarsi un intrigante programma imperniato sul grande sinfonismo, con due capolavori assai distanti tra loro per linguaggio e temperie culturale di nascita ma entrambi di notevole impegno per gli esecutori.
La Sinfonia n. 6 in fa maggiore op. 68 Pastorale (1807-08) di Ludwig van Beethoven (1770-1827) non ha certo bisogno di presentazioni. Conlon e l'Orchestra Sinfonica Nazionale sfoderano un suono compatto e ben amalgamato in tutti i registri, senza sfilacciature di sorta, riservando un'attenzione minuziosa alla dinamica tanto nei momenti di più appassionato abbandono lirico e poetico dei primi due tempi e del finale quanto nei tratti di ebbrezza dionisiaca dello scherzo e di timor panico della successiva tempesta.
La Scena presso il ruscello è così concertata con ammirabile compenetrazione tra le incessanti terzine e sestine degli archi infiorettate di trilli e le figurazioni altrettanto mosse dei fiati nel loro gioco sublime di staccati e legati. Gli squilli dei corni nell'Allegra riunione di contadini sono tradotti con rustica vitalità che non pregiudica la rotondità dell'intonazione dal quartetto di solisti chiamato in primo piano, mentre, dopo lo scatenarsi degli elementi, il cerchio si chiude con il ritorno a quell'espressione di ideale accordo tra uomo e natura che aveva aperto l'opera. La direzione di Conlon è impostata nei movimenti estremi su un equilibrato senso della misura, lontana dagli eccessi cameristici di esecuzioni con organico ridotto (c'è pur sempre sul palco la sezione degli archi quasi per intero con 9 violoncelli e 7 contrabbassi, sfruttata al meglio per ottenere il caratteristico fondale scuro del temporale) ma anche dalla drammatizzazione romantica ed esasperata di un autore che componendo la Pastorale aveva forse in animo la classicità di certe pagine goethiane, come mette in luce Oreste Bossini nell'interessante introduzione riportata sul programma di sala.
Con Sergej Prokof'ev (1891-1953) e la sua Sinfonia n. 3 in do minore op. 44 (1928), ricavata dal materiale musicale impiegato nella sfortunata opera in cinque atti L'angelo di fuoco (dal romanzo di Brjusov) di poco precedente e mai rappresentata vivente il compositore, siamo proiettati nello sperimentalismo più avanzato degli anni '20 del Novecento. La Sinfonia si pone ai vertici delle sbalorditive abilità di orchestratore di Prokof'ev con una labirintica sovrapposizione di ritmi, timbri e armonie capace di produrre un fascino ammaliatore e magnetico, dalla sfolgorante energia degli accordi di apertura all'angoscia intrisa di pessimismo dell'apocalittico Allegro moderato conclusivo.
La compagine della Rai supera un banco di prova temibile anche grazie al gran lavoro del maestro dal podio, con un'interpretazione priva di sbavature, tesa come una lama di acciaio a impedire che la tensione espressiva e costruttiva cali per un solo istante. Già nel melodizzare ampio dell'Andante si fa strada una sotterranea inquietudine destinata ad accumularsi e ad esplodere nello Scherzo (Allegro agitato), brano che, con i terribili glissati dei violini e le figurazioni isteriche degli altri archi divisi, sarebbe valso da solo il prezzo del biglietto.
L'entusiasmo della platea compensa ampiamente tutti gli attori per un impegno fantastico ed esemplare.
Di fronte a serate come questa sarebbe lecito aspettarsi un pienone da parte del pubblico. Spiace constatare che, a fronte comunque di una buona affluenza, così non è stato. Ma spiace constatare ancora di più che una parte non piccola di esso abbia abbandonato la sala dopo l'intervallo, come se in una città da sempre aperta al nuovo come Torino la musica, prossima al secolo di vita, di uno dei massimi geni del Novecento sia ancora percepita come eccessivamente ostica e poco adatta alle orecchie di una sala da concerto.