Il re tenore nella reggia del re Borbone
di Luigi Raso
Plácido Domingo torna a esibirsi per la prima volta dopo il lockdown - e la sua stessa guarigione - nella reggia fatta edificare dal suo concittadino Re di Napoli prima che di Spagna. Il carisma e la musicalità del tenore restano intatti a dispetto dello scorrere del tempo e dell'incomodo repertorio baritonale; dopo una prima parte operistica, nella zarzuela anche il soprano Saioa Hernandez dà il meglio di sé come interprete.
CASERTA - Carlo di Borbone, Madrid, la Zarzuela e, naturalmente, la tradizione lirica italiana sono le coordinate del Gala Plácido Domingo, appuntamento clou della rassegna Un’estate da Re.
Siamo ospiti dell’ellittica piazza disegnata da Luigi Vanvitelli e intitolata a Carlo di Borbone, primo sovrano della dinastia a sedere sul trono di Napoli (dal 1734 al 1759) e successivamente (dal 1759 al 1788) Re di Spagna. Oltre al Teatro di San Carlo - per cui non smetteremo mai di glorificarlo – all’illuminato sovrano si deve, tra le tante, la commissione a Luigi Vantivelli dell’edificazione della Reggia di Caserta che fa da mirabolante quinta scenica al Gala.
Carlo III di Borbone, da Re di Spagna, meritò l’appellativo di el Mejor Alcalde de Madrid (il miglior Sindaco di Madrid) per la sua opera di ammodernamento urbanistico della capitale spagnola. Domingo è figlio della città castigliana (la sua casa natale, opportunamente fregiata di lapide celebrativa, è in Calle Ibiza 34, non lontana dal Parque del Retiro); madrileno è anche il soprano Saioa Hernández che divide per questo Gala il palcoscenico con l’illustre concittadino.
Ed ecco che per presentarsi al pubblico campano, Domingo e Hernández, accompagnati dalla sempre affidabile Orchestra Filarmonica Giuseppe Verdi di Salerno diretta da Jordi Bernàcer, estroverso e poliedrico direttore asturiano, scelgono un programma bifronte che è omaggio al repertorio lirico italiano e alla Zarzuela spagnola.
Si parte con una corretta esecuzione della sempreverde Sinfonia da La forza del destino: non proprio un titolo beneaugurante, dunque, ma l’esecuzione che ne dà Bernàcer è pulita e la lettura è declinata più sul versante lirico che su quello drammatico.
L’attesa, naturalmente, è tutta per Domingo. Le presenze del tenore spagnolo in Campania sono state sporadiche: solo due volte al Teatro di San Carlo (in Manon Lescaut nel 1971 e in Tosca nel 1981; gli annali, poi, narrano di un Parsifal a Ravello diretto da Valerij Gergiev, nel 1997). A Caserta è riservato il privilegio e l’onore della prima esibizione pubblica di Domingo post lockdown e la prima successiva alla convalescenza da Coronavirus che nello scorso marzo ha colpito l’artista. È un ritorno che emoziona, sin da quando guadagna il palcoscenico salutato da un caloroso applauso.
Stavolta in Campania torna da baritono. Perché un artista dalla intelligenza - anzi, più correttamente, genialità - musicale come quella di Plácido Domingo abbia deciso, ormai da più di dieci anni, di frequentare una corda vocale a lui non del tutto congeniale per colore, spessore e compattezza, resta, ascolto dopo ascolto, un mistero.
L’evoluzione della carriera di una leggenda musicale è insindacabile, tuttavia questa constatazione non riesce a cancellare, almeno in chi scrive, talune perplessità sul Domingo baritono.
Al netto di queste personali e opinabili considerazioni, il "Perfidi… Pietà, rispetto, amore" dal Macbeth di Giuseppe Verdi stupisce e ci fa rallegrare per l’ottima forma vocale di Domingo. Il timbro conserva quelle seducenti screziature che hanno contribuito a creare la leggenda vocale di Domingo. Gli basta declamare il recitativo iniziale per avere la conferma di trovarsi davanti a un artista appartenente a una ristretta schiera di eletti da Madre Natura, o chi per essa.
Alla soglia degli 80 anni (se vogliamo prestare fede a quanto indicato sulla lapide madrilena che lo dichiara nato nel 1941, benché l’età di Domingo sia dibattuta quanto il sesso degli angeli!) l’organizzazione vocale di Domingo stupisce per la forma vocale, per la capacità di dominare senza accusare segni di stanchezza i fiati, di tenere gli acuti. Ha forma vocale e tecnica che legittimamente potrebbero costituire i sogni proibiti di celebrati colleghi pur più giovani di trenta anni.
Ad ogni modo, ad essere immutato è il carisma artistico, quella impalpabile vis attractiva che taluni artisti esercitano sul pubblico e che Madre Natura parsimoniosamente dispensa.
Attento al senso e al suono della singola parola, ad ogni accento, inflessione, colore e sussurro, Domingo tratteggia un Macbeth estremamente timoroso e dubbioso, di fronte al quale la Lady Macbeth di Saoia Hernandez, nel duetto "Sappia la sposa mia…Fatal mia donna! un murmure", a causa di un’eccessiva freddezza interpretativa, sembra non saper rafforzare e incendiare i propositi criminali dello sposo.
A Domingo, invece, basta saper calibrare accenti e un fraseggio analitico costruito su smorzature e rinforzi dei suoni, per delineare un Macbeth immediatamente credibile: laddove non riesce, per limiti obiettivi e per la non innata congenialità della vocalità baritonale, che sembra quasi di compiacersi nel mostrare il “ribelle” DNA tenorile, arriva la smisurata musicalità dell’artista.
Analogo discorso per "Nemico della Patria" da AndreaChénier di Umberto Giordano: quanto a interpretazione Domingo domina il monologo di Carlo Gérard con sicurezza, attenzione alle inflessioni linguistiche (magnifica quella riservata al "Studiò a Saint Cyr?") e musicali: assottiglia l’emissione, canta a fior di labbra e poi si getta senza timore nel gorgo della accensione melodica di "La coscienza nei cuori ridestar delle genti".
A Domingo fanno da contrappunto il "Vissi d’arte" molto ben cantato da Saoia Hernández, la quale, però, sembra non saper conciliare il notevole bagaglio tecnico e vocale con altrettanta accuratezza di analisi: indubbiamente la Hernández canta correttamente i brani della prima parte del concerto riservati al repertorio italiano ("Vissi d’arte", "La mamma morta", e i duetti da Macbeth e da Il trovatore), ma l’interprete emerge a tratti; appare eccessivamente trattenuta e concentrata nell’apprestare una linea di canto pulita, nel mettere ben a fuoco gli acuti. Hernández, nella prima parte del gala, appare troppo intimorita dal dividere la scena con un autentico, monumentale e leggendario animale da palcoscenico qual è Plácido Domingo.
La parte migliore del proprio poderoso armamentario vocale il soprano spagnolo lo sfoggia nel duetto da Il trovatore"Mira, d’acerbe lagrime", laddove Domingo accusa qualche difficoltà, tendendo ad aprire eccessivamente i suoi del registro medio. La voce della Hernández è, invece, sicura nell’intera tessitura, ben emessa, timbrata e svettante negli acuti; inoltre, alleggerisce abbastanza l’emissione in "Vivrà! Contende il giubilo i detti a me, signore..."
La seconda parte del Gala è interamente riservata alla Zarzuela: Jordi Bernàcer è bravo a introdurci nel suo mondo con una trascinante esecuzione dell’Intermedio da La boda de Luis Alonso (1897) di Gerónimo Giménez, dal colore orchestrale e dai ritmici prettamente spagnoli.
Così come in occasione della Sinfonia da La forza del destino in apertura di concerto e del meraviglioso Notturno, op. 70 di Giuseppe Martucci, condotto da Bernàcer con sicurezza e fluidità melodica, l’esecuzione dell’Intermedio conferma l’eccellente lavoro di concertazione del direttore spagnolo alla guida della Filarmonica Giuseppe Verdi di Salerno.
Addentrandosi nel mondo della zarzuela, l’idioma di Cervantes scalda il cuore di Saoia Hernández e accentua il carisma e l’affabilità scenica e l’acume musicale di Plácido Domingo: si parte, dunque, con "En mi tierra extremeña" da Luisa Fernanda di Federico Moreno-Torroba.
Domingo mette in risalto quei colori sensuali e bruniti tenorili che lo hanno reso leggendario: il canto è armonioso, seducente e suadente, non si risparmia sul versante interpretativo. Quella delle zarzuelas è musica che, come ha dichiarato Domingo nella breve conferenza stampa post Gala, ha sentito sin da quando era nell’utero materno. È inscritta all’interno del suo corredo genetico, e lo si percepisce: il Domingo nella zarzuela appare senza età, felice di cantare di divertire, consapevole di saper ammaliare il suo pubblico.
La Hernández è complice perfetta in questo gioco di seduzione: sempre spigliata, appassionata, si mostra a suo agio nelle romanze. Da ricordare il suo "¿Qué te importa que no venga?" da Los claveles (1929) di José Serrano, laddove, in questo brano dal sapore disperatamente iberico, evidenzia lo spessore del proprio registro centrale e grave, nonché la luminosità e l’ampiezza di quello acuto.
Quando Plácido Domingo attacca "No puede ser" da La tabernera del puerto (1936)di Pablo Sorozábal il ricordo (e annessa commozione) ritorna alla notte di Caracalla del luglio del 1990, quando il tenore spagnolo presentò al pubblico romano questa romanza: oggi sarebbe piaggeria affermare che il tempo per Domingo non sia passato, ma il carisma artistico e la spontanea melodiosità del fraseggiare di Domingo, quello che si manifesta con un semplice pianissimo su un rallentando, costituiscono scudi impenetrabili per i dardi del tempo scagliati verso i suoi mezzi vocali. Una romanza, "No puede ser", che da sola vale il pellegrinaggio casertano e che dimostra, per il “caso Domingo”, quanto la forma vocale, se sorretta da tecnica e intelligenza musicale, possa prescindere da età anagrafica e durata della carriera.
Il primo bis è il famoso duetto da El Gato Montés (1916)di Manuel Penella: Domingo, Hernández e Bernàcer trascinano tutti sulle sinuose melodie spagnole; la Hernández è spigliata e frizzante. Il risultato è un duetto di estrema godibilità, che emana calore e simpatia.
Tocca a Saioa Hernández chiudere la sezione dei bis dedicati alla Spagna con una romanza dal ritmo incalzante che mette in risalto la precisione della linea di canto e la qualità dello smalto timbrico.
La Spagna, Napoli, Madrid e l’intero Regno di Napoli hanno avuto rapporti politici e culturali secolari: il committente delle Reggia di Caserta - la cui facciata, illuminata con colori cangianti, ci osserva maestosa - fu commissionata da Carlo di Borbone, madrileno di nascita, il quale, chiamato sul trono di Spagna, secondo la leggenda, pianse nel lasciare Napoli, non prima di aver ordinato di portare a Madrid una porzione del Sangue di San Gennaro.
E, dunque, la sezione dei bis non poteva non concludersi con tre canzoni napoletane: si incomincia con Dicitencello vuje (1930)di Rodoldo Falvo e Enzo Fusco, una sofferta dichiarazione di amore di un uomo alla donna amata, ma resa “per interposta persona”. Domingo padroneggia molto bene la pronuncia della lingua napoletana, il suo canto è ammaliante, partecipe di quel tormento dell’anima evocato nella celebre canzone, accenta e dà il giusto risalto al “tu” della frase “si’ TU chesta catena ca nun se spezza maje”, cuore della canzone.
Si prosegue con Core 'ngrato (1911) di Salvatore Cardillo e Riccardo Cordiferro, canzone feticcio per tutti i grandi tenori, da Enrico Caruso a seguire: Plácido Domingo è implorante, appassionato, lavora di cesello quando “duetta” con la bravissima violinista di spalla dell’orchestra salernitana.
Il bis finale vede partecipi Domingo e la Hernández: è la più celebre tra le canzoni napoletane, ‘O sole mio (1898) di Giovanni Capurro e Eduardo di Capua, a infiammare pubblico e artisti.
Domingo invita il pubblico a cantare, ma - per fortuna! - l’invito non viene raccolto.
Al termine della bella e intensa serata ovazioni per tutti e applausi fragorosi e affettuosi per Plácido Domingo. Con questo concerto si colma il vuoto “campano” del grande tenore spagnolo: nel corso della conferenza stampa post concerto, Plácido Domingo ha dichiarato che, a molti anni dalla sua ultima esibizione, gli farebbe piacere tornare al San Carlo. Ai miti nulla è impossibile.