Lo spirito di MITO
di Antonino Trotta
MITO Settembre Musica c’è, forse quando ce n’è più bisogno, e con il bel concerto inaugurale, che per protagonisti ha Francesca Dego e Daniele Rustioni alla guida dell’Orchestra Sinfonica di Milano Giuseppe Verdi, conferma di essere mutato sì nella forma ma non certo nella sostanza.
Torino, 4 settembre 2020 – Che si ascolti un oratorio di Händel o una delle sinfonie di Beethoven, la musica crea sempre un momento di intensa spiritualità: a chi le si avvicina con animo rinvigorito dalla fede essa potrà svelare tracce inconfondibili del dialogo tra umano e divino; coloro che invece ne prediligono un consumo laico si lasceranno facilmente travolgere dalle visioni di bellezza assoluta, dalla riscoperta della natura, dall’energia dell’idea genitrice che si trasforma in vibrazioni, tensioni, emozioni pronte a riverberare nelle ossa di chi le accoglie. Al di là di ciò che evoca, però, la musica è spiritualità soprattutto perché capace di creare una comunità, una comunità che nell’incontro, seppur rigorosamente a distanza di sicurezza, avverte la gioia della condivisione, attinge alla ricchezza dello scambio, nutre il bisogno di appartenenza. Così oggi MITO Settembre Musica, con i suoi densi appuntamenti che declinano variegatamente il tema Spirito, appare qualcosa in più: non solo uno dei festival più longevi d’Italia, né esclusivamente la rassegna più lussuosa che il panorama musicale torinese offre nell’arco dell’anno, bensì la prima occasione che riunisce copiosamente, dopo mesi di silenzio e isolamento, questa stessa comunità di cui tutti noi in fondo sentiamo d’esser parte.
Ecco quindi che s’ascolta, anzi si partecipa, in apertura della serata inaugurale, a Pilgrims di Ned Rorem – prima esecuzione italiana secondo la più consolidata tradizione di MITO – con una sensibilità drammaticamente rinnovata giacché l’immagine di pellegrini erranti, di una comunità che si ricongiunge per intraprendere insieme un viaggio in una partitura dove solo rarefatti punti di luce sembrano illuminare la destinazione, uniti lungo il corso del proprio cammino dalla memoria del dolore, si presenta a noi con la stessa ferocia di un tragico ricordo di vita vissuta.
Quando il presente è tragico e il futuro incerto non resta allora che aggrapparsi ai dolci ricordi. Dolcissimi, nello specifico, sono quelli evocati da Čajkovskij nella raccolta Souvenir d'un lieu cher op. 42 – trascritta per violino e orchestra d’archi da Alexandru Lascae – viepiù se inebriati dal radioso violinismo di Francesca Dego. L’incipiente Méditation, tuttavia, è ben altro che un’imbambolata rimembranza del passato, piuttosto risuona come un’assertiva volontà di riconquistare ciò che era stato: la struggente cantabilità del suo strumento, proiettata su un legato che abbraccia l’intero movimento quasi la melodia non trovasse mai tregua, è l’immediata conseguenza di un fraseggio ispirato, volitivo, decisamente poetico che poco o nulla concede al lezioso, piuttosto si muove fiero seguendo il sentiero tracciato da una musicalità solida e raffinata. E se lo Scherzo centrale offre l’opportunità di lasciarsi elettrizzare dal vorticoso virtuosismo in punta di fioretto, nella Mélodie conclusiva il ricco patrimonio espressivo di Francesca Dego balza nuovamente in primo piano per valorizzare appieno, con un’eccellente varietà di registri, il tenero lirismo che caratterizza questo lavoro. Sfortunatamente nessun bis trattiene la violinista sul palco oltre il dovuto: ci rifaremo in occasione dell’imminente maratona beethoveniana, a fianco dell’inseparabile compagna d’avventura Francesca Leonardi, per l’Unione Musicale.
Certo agli esiti felici di queste deliziose pagine contribuisce senza dubbio l’ottima concertazione di Daniele Rustioni, ovunque vigile nell’assicurare l’aderenza dell’esecuzione ai canoni della misura e del buon gusto. Anche la Serenata in mi maggiore per archi op. 22 di Dvořák, ultimo pezzo della ristretta scaletta, non fatica a suscitare sincero entusiasmo. È vero, il Moderato iniziale e il successivo Tempo di valse – fatta eccezione per la sezione del Trio –scorreranno pur via in una sensazione di esclusiva correttezza ma la zampata ferina del direttore s’imprime vigorosa a partire dal terzo episodio. Là dove la scrittura impenna e il ritmo incalza, come nello Scherzo centrale, Rustioni sa infiammare lo spartito con contezza di mezzi e stile, governando con fermezza un’orchestra sinora mai apparsa così risoluta. Alla forza primordiale e danzereccia di suddetto movimento Rustioni poi contrappone un Larghetto dominato da un’aristocratica drammaticità che ora s’insinua nelle arcate melodice e colora il dettato con dinamiche di grande suggestione, ora modera il passaggio da A a B (Un poco più mosso) affinché tra le sezioni si instauri un rapporto di continuità dialettica al fine di inspessire il valore della prima per amplificazione e non per contrasto alla seconda. La stessa gagliardia propulsiva dello Scherzo ritorna nel Finale (Allegro vivace), dove lo “spirito felice” della terra boema si annuncia prima nei rutilanti squilli degli archi, che immediatamente dinamizzano l’azione musicale, poi negli scorci malinconici suggeriti dall’eco del tema del Moderato. La breve coda conclusiva, incendiaria, desta infine il consenso definitivo del pubblico.
Pubblico che, per quanto limitato a causa delle vigenti norma – peccato che tra le varie leggi che hanno stravolto la quotidianità concertistica non ne sia stata varata una che vieti categoricamente l’esecuzione della Danza ungherese n. 5 di Brahms come bis –, non manca di inondare l’ora immensa platea del Regio col consueto calore. MITO sarà quest’anno forse cambiato nella forma. Ma c’è, e c’è in tutta la sua sostanza.