Beethoven intimista
di Lorenzo Cannistrà
Al Teatro Dal Verme di Milano, per MiTo, Filippo Gamba offre una lettura matura e consapevole delle ultime tre sonate di Beethoven, insieme al Menuet sur le nom de Haydn di Maurice Ravel e alla Meditation on Haydn’s name di George Benjamin
MILANO, 8 settembre 2020 - Capita talvolta che le intenzioni di un interprete sensibile, il quale voglia presentare un programma per così dire “orientato”, vadano felicemente (e forse involontariamente) al di là di quanto immaginato in partenza.
In questo recital programmatico, nel segno e nel nome di Franz Joseph Haydn, tenutosi l’8 settembre a Milano per l’annuale Festival MiTo, il pianista veronese Filippo Gamba ha proposto un’interessante lettura delle ultime tre sonate di Beethoven, unitamente a due brevi pezzi, di Ravel e del compositore britannico George Benjamin. “L’inizio e la fine” è il titolo della proposta musicale, con evidente riferimento al magistero esercitato da Haydn sul giovane Beethoven delle prime tre sonate op. 2, e non solo.
Ebbene, l’accostamento dei due giganti, se da una parte richiama alla mente un ideale passaggio di consegne (“ricevere lo spirito di Mozart dalle mani di Haydn...”, diceva il conte Waldstein), ci ricorda però anche che “papà Haydn”, in fin dei conti, non si filò granchè il suo geniale allievo, e che Beethoven dal canto suo affermerà di “non aver imparato niente da lui”. Aneddotica a parte, il debito verso l’esempio del venerato Maestro esiste, e ciò giustifica ampiamente il collegamento.
Ma – e qui vengo al punto – il titolo è felicemente evocativo anche del carattere e della sostanza di questo ultimo Beethoven. In queste sonate, che mettono definitivamente in crisi la forma tradizionale, si agitano tentativi di plasmare una forma ciclica, un continuo partire e ritornare alla cellula melodica/armonica/ritmica di partenza. Il tema (con variazioni) dell’op. 109 viene riproposto integralmente al termine del movimento (e della sonata: come non pensare alle Goldberg-Variationen!); nell’op. 110 l’Arioso dolente e la fuga si ripresentano alternandosi, variati e/o invertiti; l’indimenticabile Arietta dell’op. 111, pur nella varietà di letture possibili, appare come una parabola umana che attraversa il vigore della gioventù, la calma della maturità, gli smarrimenti e i dubbi presenili, l’ultima fiammata prima del tramonto, e si stempera nell’estrema citazione del tema, spoglia ma affettuosa, riconoscente per ciò che si è vissuto. L’inizio e la fine, appunto.
Le chiavi di lettura, come si diceva, sono molteplici. Beethoven ha composto questa musica mentre lavorava alla sua Missa Solemnis, e non si può prescindere anche dalla religiosità del Nostro, nel valutare questi capolavori. Qualcuno ha parlato persino di viaggio che si conclude con la visione di Dio, o del vero bene, in prospettiva quasi da Paradiso dantesco. Ma ben più ancorate alla concreta realtà umana sono in verità le indicazioni antropomorfiche (“perdendo le forze”, “poco alla volta di nuovo vivente”) che troviamo nell’op. 110.
Di tutta questa necessità di un approfondimento, che è insieme emotivo ed intellettuale, sembra ben consapevole Filippo Gamba, raffinato artista con solida esperienza internazionale, che si è immerso nella musica alla ricerca di ulteriori significati. A far da cornice, un Teatro Dal Verme semivuoto, e spiace sinceramente dirlo.
L’op. 109 inizia con grande attenzione al lirismo e alla calma interiore. La pedalizzazione, anche nei momenti più concitati, è parca o comunque sempre ben bilanciata. Il mi maggiore emerge in tutta la sua calda luminosità: è una delle eredità che Haydn lascia a Beethoven, che ne farà buon uso nel secondo tempo dell’op. 2 n. 3, ed ancor più nel secondo tempo del Concerto op. 37. Il Prestissimo in mi minore scorre con qualche fluttuazione agogica di troppo, tale da renderne instabile il centro. Ben più inquadrato è il tema con variazioni, in cui il momento più interessante è proprio quello iniziale del tema e della prima variazione. Qui Gamba trova accenti di rimarchevole intensità, un uso originale del pedale e la tendenza a far emergere la voce della mano sinistra (oltre all’espediente, che utilizzerà per tutto il concerto, di creare piani sonori ben distinti tramite l’anticipazione della melodia rispetto al basso).
Nell’op. 110, il primo tempo rappresenta il momento senza dubbio più significativo. Gamba riesce ad allargare il respiro della melodia, sospendendola su un piano sonoro veramente lontano da tutto il resto, così come ad intensificare quasi a dismisura i crescendo, ma senza deformare il carattere di amabile e raccolto eloquio che caratterizza tutto il pezzo. Esemplare l’effetto carillon del secondo tema, dai contorni nettissimi. Meno azzeccata la visione del successivo Allegro Molto, che sostituisce all’inquietudine nascosta nel tema popolaresco una pesantezza che sembra quasi ricordare curiosamente lo Gnomus dei Quadri di un’esposizione. Nel terzo tempo Gamba eccelle soprattutto nel carattere meditativo, ripiegato su se stesso, dell’introduzione e dell’Arioso dolente, anche questo reso con una libertà espressiva che non sacrifica mai la misura del classicismo. Per le fughe c’è da ripetere quanto detto a proposito del Prestissimo dell’op. 109: le libertà agogiche a volte vanno a discapito dell’unità e della direzione del pensiero musicale. Ben restituito però è il finale, adeguatamente grandioso, lontano dall’andamento un po’ incerto di ciò che lo precede.
Nell’op. 111, il Maestoso è condotto con nobiltà, ma senza spavalderia, quasi con esitazione. Originale è il tempo, assai moderato, staccato per il trillo al basso (un tempo che viene preso più spesso per l’analogo trillo del secondo tempo della Wanderer-Fantasie). Tutto il movimento scorre con sicurezza e vigore, trovando il suo climax negli accordi terrei che precedono la mirabile coda in tonalità maggiore. Con l’attacco dell’Arietta il pianista veronese dimostra ancor di più che i suoi assi nella manica sono il lirismo, libero e controllato al tempo stesso, e la capacità di ricreare un’atmosfera intima, da “focolare”, ma mai affettata. Tre momenti da ricordare: 1) la prima variazione, per la quale immagino che Gamba abbia annotato sul suo spartitola dicitura “con tutta la bellezza possibile”; 2) il brevissimo recitativo dell’episodio libero, che scandaglia l’abisso come raramente si ascolta; 3) l’attacco della quinta variazione, uno stupendo trapasso verso le ultime pagine della sonata, di una bellezza cosmica.
Per concludere, i brevi pezzi di Ravel e Benjamin mostrano di essere accomunati più da un affine universo sonoro, che dall’omaggio ad Haydn. Ma mentre il Menuet sembra una elegante postilla ai Valse nobles et sentimentales, il brano di Benjamin ha più di qualche debito di riconoscenza con Le Gibet (per via dell’insistente figurazione nel registro centrale del pianoforte), e, ancora, con Debussy (il richiamo è alle fissità armoniche di Voiles).
Nessun bis è stato concesso. Considerata la sintonia dell’interprete con la musica del genio di Bonn, rimpiango di non aver ascoltato almeno una delle Bagatelle (di cui Gamba ha registrato l’integrale).