L'importanza di essere Jonas
di Roberta Pedrotti
Nelle ultime ore di apertura dei teatri prima della nuova sospensione di un mese dovuta all'emergenza sanitaria, il Comunale di Bologna celebra la Giornata mondiale dell'opera con uno straordinario galà di Jonas Kaufmann. Al suo fianco il mezzosoprano Clémentine Margaine, sul podio Asher Fisch per una serata memorabile.
BOLOGNA, 25 ottobre 2020 - La sinfonia della Forza del destino. Non sembra poterci essere pezzo più in sintonia con il sentimento collettivo in quest'ultima serata prima del nuovo “semilockdown”. Doveva essere, per quanto possibile nell'autunno ancora travagliato dalla pandemia, una festa per la Giornata mondiale dell'opera, è stata, dopo uno stillicidio di maestranze e artisti in quarantena, cambi di programmi, voci su provvedimenti, l'ultima presenza prima di una nuova sospensione, la conferma inesorabile della fragilità dell'esistenza di fronte agli imperiosi accordi del Fato.
Asher Fisch dosa con maestria l'arcata del crescendo, non travolge l'agogica nella dinamica, ma differenzia la stasi implacabile del destino dall'indugio smarrito dell'uomo, il fremito ansioso della vita e il turbine travolgente della sorte. Il pulsare del tempo non trascina con sé l'intensità del suono, né questa ne altera lo scorrere, ma entrambi rispondono all'impellenza del senso musicale, e dunque poetico di un pezzo che sembra sintetizzare tutto il contrasto stordente di questi mesi.
L'applauso sarebbe già liberatorio di per sé, se non si trasformasse poi in un interminabile, commuovente benvenuto allorché sulla scena appare Jonas Kaufmann. È un dire tutti insieme, in questo battito di mani, che siamo felici di essere qui, che siamo felici che lui sia qui e con lui l'orchestra, il direttore, tutta la macchina teatrale in trasferta dal Comunale al Paladozza. È un dirci, nei semplici gesti di saluto e gratitudine, che è felice anche lui di essere qui, con noi, con i colleghi musicisti, con il Comunale.
Kaufmann apre con “Cielo e mar” un programma che dire impegnativo è poco: all'aria dalla Gioconda seguiranno l'Improvviso di Andrea Chénier, l'Addio alla madre di Turiddu, “O tu che in seno agli angeli” e “Rachel, quand du Seigneur”, il duetto fra Radames e Amneris e quello finale di Carmen. Quel che ascoltiamo è tale da mettere in crisi tutte le certezze sull'ortodossia dell'emissione: alcuni attacchi sono agganciati con un lieve portamento dal basso, qualche vocale alterata, qualche suono un po' schiacciato, i piani e le mezzevoci sussurrano sul filo del falsetto e della perdita dell'appoggio. Eppure, a cinquantun'anni compiuti, passati i venticinque di carriera, il canto è solidissimo, sicuro, la consapevolezza e il controllo di ogni nota è evidente, proietta la voce senza problemi e con vigore adeguato al repertorio, soprattutto mostra un registro acuto sempre facile e pronto, raggiunto legando con naturalezza. Allora, senza togliere validità ai principi generali, bisognerebbe forse concentrarsi un po' di più sul lavoro che l'artista compie su di sé, sulla propria voce e sulla propria interpretazione; bisognerebbe fare di questo tipo di lavoro, più che dei risultati, un modello. Imitando i risultati dei grandi, tanti cantanti si sono rovinati enfatizzando il difetto (o trasformando la caratteristica in difetto); ispirandosi al metodo dei grandi – allo studio della musica, del personaggio, della tecnica per il proprio strumento – si sono invece formati altri grandi. È proprio questo che conta in Kaufmann e trascina stasera quasi mille persone all'entusiasmo: con la sua voce riesce a fare ciò che vuole, e quel che vuole è un concentrato d'intelligenza e musicalità, è un dosaggio di colori, sfumature e accenti in cui si ritrova tutta la storia del personaggio. I temi ricorrenti della nostalgia, dell'idealismo, della passione, del presagio di morte, della perdita della speranza, dell'autoannientamento non si ricombinano come cliché, ma si rinnovano di volta in volta in contesti diversi. Turiddu è stordito, prosciuga il canto fino agli estremi confini del recitativo di fronte alla consapevolezza della fine imminente e alla pena di fronte alla madre, si lascia andare alla piena espansione della voce, sussulta, aggrappato a quel po' d'ebrezza che lo scalda fino al momento fatale in un continuo, sopraffino mutare d'accenti. Radames era il giovane ardente e sognatore baciato dalla fortuna sul campo di battaglia una volta nominato generale, ma rovinatosi poi con le sue stesse mani per sicumera e ingenuità. Ora Radames è l'uomo che non ha più nulla da perdere, a cui nulla più interessa se non mantenere almeno la dignità, non discolparsi, non cedere, farla finita. La sua determinazione cieca e impassibile ha un eroismo nichilista ancora differente dalla follia autodistruttiva di Don José, così pacato, quasi anodino, ma agghiacciante per quel “laisse-moi te sauver” che parla già di delitto, della tossicità dell'amore-possesso, ferisce più della lama vibrata dall'istinto senza più barlumi di ragione. E, viceversa, Don Alvaro non ha commesso gli errori di Radames, non ha inseguito come il Dragone di Siviglia pervicacemente una passione pericolosa, è solo una vittima della sorte da prima di nascere: ecco la nobiltà del suo lamento e l'assottigliarsi non è stordimento, non è follia, è estasi dolente al pensiero dell'amata libera dalle pene terrene in filati, crescendo e diminuendo soppesati con maestria e sincero trasporto. Il trasporto poetico che era già di Enzo Grimaldo fra l'incanto della natura e il pensiero ardente della fuga d'amore, il trasporto ideale di Chénier di fronte alle ingiustizie e per un mondo migliore, ma anche il trasporto trattenuto di Eléazar per quella figlia cresciuta e amata come sua, quella figlia condannata a morte e che potrebbe salvare rivelandone le origini cristiane. Proprio nell'aria celeberrima della Juive Asher Fisch con l'orchestra del Comunale disegna un piccolo capolavoro con il tema introduttivo dei fiati, un tema in cui si rapprende tutto il senso delle radici, dell'appartenenza e della persecuzione che porteranno al patibolo Eléazar e Rachel.
Fisch, perlatro, nel corso della serata non solo accompagna con finezza e sensibilità il canto, ma si produce anche in alcune pagine strumentali che non passano come mero riempitivo. Il senso fisico di abbandono alla morte dell'Intermezzo di Manon Lescaut fa il paio nella prima parte con il pathos interiorizzato, quasi onirico, dell'Intermezzo di Cavalleria rusticana. Nella seconda parte, quasi tutta francese, colpiscono l'energia sfolgorante, l'eros prepotente ma mai fuori controllo del Baccanale di Samson et Dalila, l'esuberante vitalità dell'Aragonais da Carmen.
Peccato non ci fosse il coro a completare la serata, ma se per il pubblico le norme garantiscono la maggior sicurezza, purtroppo dietro le quinte i contatti aumentano, ne aumenta la frequenza, il canto mette inevitabilmente in circolazione le famigerate goccioline. Sia triste e imponderabile fatalità, sia colpevole adesione a criminali propagande di negazionisti e dintorni, basta poco perché, purtroppo, si trovi un caso positivo fra le maestranze e interi comparti si trovino in quarantena. Così, da quasi un mese, anche il coro femminile del Comunale è costretto a tacere. Adeguate o meno siano le varie misure adottate, il peggior nemico resta il virus con i suoi alleati umani.
C'era, sì, un'altra voce con Jonas Kaufmann. Non quella prevista di Anita Rachvelishvili (anche lei in quarantena dopo i casi riscontrati alla Scala durante la produzione di Aida), ma quella di Clémentine Margaine: medesimo repertorio, curriculum prestigioso, pochissime occasioni di ascoltarla in Italia e quindi ancor più benvenuta. La voce è senz'altro di qualità, ampia, estesa, di bello smalto. Specie di fronte a Kaufmann si nota una dizione poco nitida, ma soprattutto spiace qualche sbandamento d'intonazione in “Mon coeur s'ouvre à ta voix”; oltre che in un energico “Acerba voluttà”, invece, convince soprattutto come Amneris e Carmen. Nel duetto verdiano ha anche modo di evidenziare il momento cruciale in cui rivela che Aida sia ancora in vita, speculare all'inganno nei confronti della rivale sulla sorte di Radames e segno della tragica condizione della principessa senza amore, costretta a cercare un contatto solo tramite i corrisposti sentimenti altrui. Nell'opera di Bizet è cinica, sprezzante ma non volgare nemmeno nel gettar l'anello, dimostra la piena padronanza del personaggio, che riprenderà poi anche nei bis, con un'ottima Seguedille.
I bis, sì. In effetti si sa che Kaufmann è un cantante generoso e anche dopo un programma così intenso non è stato da meno, forse per permetterci di far provviste di ricordi musicali in vista della nuova serrata.
Comincia con leggerezza, con “Non ti scordar di me”, una canzone che sa già di un saluto, di un caloroso arrivederci. Non basta, ed ecco l'Addio alla vita di Cavaradossi, ulteriore declinazione delle mille sfumature che Kaufmann sa trovare nel rimpianto, nel ricordo della passione perduta, nell'incombere della morte, tutto in un gioco di rarefazioni e intensificazioni, trasporti e sussurri che non stuccano, ma si dipanano nel flusso naturale del discorso. Dopo la Seguedille di Margaine, torna Kaufmann con quella che avrebbe tutta l'aria della più classica chiusura trionfale: “Nessun dorma”. Ampio, virile, svettante, assertivo ma non monocorde. Inevitabilmente entusiasmante senza perdere la cifra del musicista che nulla concede all'effetto e non scade mai nel cattivo gusto. Basta così? No, perché di lì a poco, nello scrosciare degli applausi, un ampio gesto di Asher Fisch apre uno scintillante sorriso dell'orchestra: non poteva essere diversamente, data la passione di Kaufmann per Vienna e l'operetta e l'irrinunciabile tappa nel paese del sorriso, Das Land des Lächelns di Lehàr. “Dein ist mein ganzes Herz”, la prima strofa in originale, poi in italiano “Ti vedo tra le rose” e la ripresa “Tu che m'hai preso il cor”. Anche nel 1929, quando la seconda stesura dell'operetta comprensiva dell'aria celeberrima debuttò a Berlino, non è che in Europa e nel mondo tirasse un'aria splendida e tuttavia riuscì a prender forma un brano come questo. Un addio, certo, ma un addio agrodolce, luminoso, aperto. Un ricordo che dà gioia più di quanto possa mordere il rimpianto. Ne avevamo bisogno: non pensare ad altro per quasi tre ore, salutarci ma con il cuore, la mente e il corpo pieni di musica.
Non per nulla Jonas Kaufmann è un divo. Un divo vero, intelligente, comunicativo, non autoreferenziale. Un divo che non ha mancato di usare la sua posizione per far sentire la sua voce già mesi fa in favore dei lavoratori dello spettacolo. Un divo che trasmette l'amore per ciò che fa e la gioia di condividerlo: non potevamo immaginare un modo migliore per celebrare la Giornata mondiale dell'opera e fermarci, sì, ma solo per poter ripartire presto, più forti e sicuri.