Il profumo del giovane Verdi
di Alberto Ponti
Un notevole successo di pubblico premia un Nabucco ben assortito nelle voci e sostenuto dalla straordinaria performance del coro del Regio. Altri punti di forza sono la bacchetta autorevole e sicura di Renzetti e il nuovo e originale allestimento registico di Andrea Cigni
Leggi la recensione del cast alternativo -> Torino, Nabucco, 13/02/2020
TORINO 20 febbraio 2020 - Nell'immensa e fantastica aneddotica verdiana, nell'ascesa del mito edificato intorno all'uomo e all'opera e spesso sornionamente avallato dallo stesso compositore, i fulmini si incontrano con particolare frequenza fin dal periodo dell'infanzia. Pare che un prete del villaggio natio, reo di aver redarguito e strattonato il piccolo Giuseppe, distrattosi nel servir messa, fosse stato ricambiato con una colorita maledizione dialettale ("Dio 't manda 'na sajetta").
Sul finire dell'estate del 1828 un fulmine cadeva puntuale sul santuario della Madonna dei Prati di Busseto uccidendo lo sfortunato sacerdote, tal don Giacomo Marzini, e altre cinque persone. Trattasi di leggende costruite con ogni probabilità ex post, mescolando fatti di cronaca con affermazioni non dimostrabili tese a dimostrare una sorta di predestinazione che aleggiava intorno al personaggio Verdi. E' però significativo come, negli artisti che segnano un'epoca, la vita proceda dall'arte e non viceversa: si cercano nella biografia conferme a suggestioni provenienti dai lavori dell'autore e, laddove manchino, le si fabbricano. Maledizioni, anatemi, punizioni divine abbondano nell'universo poetico del nostro e dei suoi librettisti, fornendo a una vasta schiera di commentatori e agiografi a lui coevi innumerevoli spunti, e la critica successiva avrà il suo bel daffare nello scindere il vero dalla pura invenzione. Sono temi cari alla generazione romantica, avvezza a declinare topoi antichissimi secondo il gusto sublime e titanico del tempo. Come non ricordare l'epitome che Victor Hugo diede dei Miserabili: "L'idra domina all'inizio, l'angelo folgora al termine"?
E un fulmine provvidenziale interviene anche in uno dei punti culminanti di Nabucco, con cui il quasi trentenne Verdi, dopo due validi ma sfortunati tentativi, compie l'ingresso trionfale tra gli operisti di primissimo livello. Il vecchio re babilonese, accecato dall'hybris, si impadronisce della corona sottraendola alla figlia Fenena, nominata da egli stesso reggente, ordinando di venerarlo come una divinità ('non son più re, son Dio!'). Tra lo stupore degli astanti ('Oh come il cielo vindice/l'audace fulminò'), il segnale celeste stordisce e placa il furore del protagonista, destinato in seguito a rivelarsi paladino del popolo ebraico oggetto invece di mire di conquista all'inizio dell'azione.
Alla fortissima valenza simbolica assunta da Nabucco non sembra corrispondere, nonostante la celebrità di alcune pagine, un'assidua frequenza sui palcoscenici. Nelle stagioni torinesi dall'unità d'Italia ad oggi il titolo ha fatto la sua comparsa solo nove volte (con la presente), con l'ultimo precedente nell'ormai lontano 1997. Bene ha quindi fatto il Regio a presentarlo, in un nuovo allestimento in coproduzione con il Teatro Massimo di Palermo, al giro di boa di questa stagione 2019/2020, raccogliendo la sfida lanciata da una partitura impegnativa e per la scrittura delle parti principali e per l'importanza capitale dei momenti corali, con un numero di cantanti in scena sovente elevato che la avvicina ad esiti quasi grandoperistici.
Andrea Cigni, con l'aiuto delle essenziali scene firmate da Dario Gessati e delle luci di Fiammetta Baldiserri, appronta una regia di notevole valenza simbolica. Ai concetti di cultura, ragione, parola e conoscenza, simbolicamente rappresentati dalle scritture venerate dal popolo eletto, si contrappone la brama del potere temporale che nutre la sfrenata ambizione di Abigaille e degli oppressori, sostanziato in oggetti materiali effimeri e corruttibili. In realtà i contorni appaiono più sfumati, le dinamiche più complesse: non vi è solo lotta per il dominio ma conflitto di amori e di affetti (Fenena e Ismaele, Ismaele e Abigaille, Fenena e Nabucco), rivalsa e riscatto sociale (ancora Abigaille, nello scoprirsi figlia illegittima), disperazione del vecchio re di fronte alla propria coscienza e di fronte ai sudditi. Cigni evita il tranello di una lettura a senso unico e nello sforzo di mantenersi sul filo di tutte le possibilità, di evocare e suggerire senza descrivere, fornisce molti appigli all'immaginazione dello spettatore, non tutti sviluppati a fondo in modo da creare un livello soggettivo di scelta che ammette una pluralità di risposte secondo la sensibilità e il background personale di ciascuno. Si muovono in questa direzione i costumi di Tommaso Lagattolla, abile nel mescolare antico e contemporaneo con mano libera, disegnando con raffinati accostamenti di colori e materiali un'atmosfera senza tempo imprevedibile e carica di pungente inquietudine.
Nel primo dei due cast (tre se vogliamo, con la partecipazione straordinaria in un paio di recite di Leo Nucci nel ruolo del protagonista) Giovanni Meoni scolpisce un Nabucco a tutto tondo. Voce non immensa ma di qualità, il baritono romano è elegante nel fraseggio, sicuro nelle puntature, coinvolgente in scena, mettendo sul tappeto una linea di canto morbida e ben cesellata in grado di elettrizzare il pubblico non solo nel grande cantabile 'Dio di Giuda' della quarta parte, premiato da applausi a scena aperta, ma anche nell'aria 'Chi mi toglie il regio scettro' incastonata all'interno del finale secondo.
Abigaille è impersonata dal soprano Csilla Boross, che ha fatto dell'ambiziosa schiava uno dei suoi cavalli di battaglia. La cantante si caratterizza per un volume di maggior spessore, non sempre dosato in maniera perfetta, ma affronta la temibile scrittura pensata da Verdi per la prima interprete Giuseppina Strepponi con sicurezza e tenuta ammirevole tanto nel registro grave quanto nell'acuto, facendo sembrare naturale e scontato pure ciò che non lo è affatto (su tutto il difficilissimo salto d'ottava su 'O fatal sdegno'). Un'autentica ovazione accoglie infatti l'attesissima scena, aria e cabaletta in apertura della seconda parte. L'Ismaele di Stefan Pop è una bella scoperta: timbro tenorile vellutato ed emissione calibrata e seducente lo rendono una gioia per le orecchie fin dalla comparsa in scena. Altrettanto può dirsi del basso Riccardo Zanellato, il gran sacerdote Zaccaria, cui tocca l'onore e l'onere di aprire l'opera, dopo sinfonia e coro introduttivo, con uno dei momenti esemplari della vocalità verdiana: la cavatina 'D'Egitto là sui lidi', lavorata all'occasione con classe e finezza di gusto. Nella profezia seguente al 'Va', pensiero', Zanellato si fa ugualmente apprezzare per il pieno controllo dei propri mezzi nel declamato della scena così come nel canto spiegato dall'ampio respiro 'Del futuro nel buio discerno', inverando con nobile fierezza l'Andante mosso indicato in partitura.
Completano il novero dei personaggi la Fenena di Enkelejda Shkosa, mezzosoprano dalla cromia variegata ma perfettibile nella tecnica, e gli ottimi comprimari Romano Dal Zovo (gran sacerdote di Belo, basso), Enzo Peroni (Abdallo, tenore) e Sarah Baratta (Anna, soprano).
Un plauso speciale va tutto alla bacchetta di Donato Renzetti. Il suo Nabucco si inserisce a pieno titolo nella più alta tradizione italiana, respingendo gli effetti plateali e roboanti a partire dalla sinfonia e ricercando sempre con cura, amore e conoscenza la migliore arcata melodica negli strumenti. Ne esce un Verdi, seppur ancora lontano dai supremi capolavori della maturità, fragrante e variegato, preciso nell'agogica e negli attacchi, accattivante nel timbro orchestrale, grazie a una compagine del Regio in splendida forma e totale sintonia e complicità con quanto avviene sul palcoscenico.
Si guadagna da ultimo la palma del vincitore il coro di casa, guidato da Andrea Secchi, per cui ogni elogio, in questo Nabucco, non renderebbe l'idea di una prestazione superba e magistrale. La piena armonia tra le sezioni, l'estrema gamma di colori, l'infinita varietà degli accenti risplendono da capo a fine in un'opera corale quant'altre mai e piena, al di là del celeberrimo 'Va', pensiero', di mille sfumature che non si vorrebbe smettere di ascoltare.
Successo travolgente e teatro sold out in ciascuna delle dieci rappresentazioni.
foto Edoardo Piva