L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Così lontani, così vicini

di Anna Costalonga

Nel rispetto delle norme di sicurezza, la Deutsche Oper di Berlino porta in scena Das Rheingold nello spazio aperto, già altre volte usato per rappresentazioni, del suo parcheggio soprelevato. Musicisti di livello, tanto entusiasmo, un adattamento "cameristico" già collaudato a cura di Graham Vick e Jonathan Dove, una squadra registica giovane: ecco che l'opera continua a vivere più vicina che mai al pubblico, superando anche il necessario distanziamento fisico.

BERLINO, 16 giugno 2020 - Il 12 giugno avrebbe dovuto andare in scena una nuova produzione del Rheingold a firma di Stefan Herheim alla Deutsche Oper. Come ben sappiamo, invece, si è dovuto cancellare l’intera programmazione teatrale per questa stagione, non solo della Deutsche Oper, ma di tutte le case d’opera.  Ad appena una settimana di distanza dall’allentamento delle restrizioni sanitarie, il 7 maggio la Deutsche Oper annuncia che metterà in scena ugualmente il Rheingold, ma all’aria aperta, per ottemperare alle vigenti norme.

È il Rheingold auf dem Parckdeck - l’Oro del Reno nel parcheggio sopraelevato.

Non è la prima volta che il parcheggio della Deutsche Oper, un ampio spiazzo quadrato, viene usato per una produzione: già nel 2014 vi era stata presentata l’Oresteia di Xenakis. Quest’area insolita si presta, infatti, a un uso teatrale: è delimitata a sinistra da una facciata con le finestre degli uffici e dei camerini e a destra da un edificio rivestito di metallo - a unire queste due architetture un ballatoio dal tetto altissimo.
Uno spazio all’aperto che all’occorenza diventa una specie di arena post-industriale insolitamente suggestiva.

Non si è trattato, comunque, del Rheingold originale di Richard Wagner, ma della versione riadattata in centodieci minuti da Jonathan Dove e Graham Vick per orchestra da camera, versione che già trent’anni fa aveva permesso alla Birmingham Opera Company di inscenare il Ring in luoghi inusuali e raggiungere così un pubblico diverso.

Non si è potuto ovviamente, riempire tutte le circa quindici file di sedie, a causa delle norme sul distanziamento. Le sedie non occupabili sono state ricoperte da teli bianchi, una platea a mo’ di scacchiera, due posti occupabili per due o tre bianchi non occupabili.  Da qui si capisce come già subito al secondo giorno di prevendite sia stata venduta l’intera quantità di biglietti disponibili per le sei recite. Un sold out dunque per l’esiguità dei posti, ma anche per la curiosità di una produzione così eccentrica, per la necessità di tornare a teatro sentita da molti, e per il prezzo abbordabilissimo dei biglietti: appena 5€ con la possibilità di donazioni a fine recita.

Concezione, regia, costumi sono stati di Neil Barry Moss, le scene di Lili Avar, la drammaturgia di Dorothea Harmann e Patricia Knebel - tutti appena trentenni o poco più, dei “giovanissimi”, cioè, in paragone all’età media dei loro classici omologhi e rispetto a loro sicuramente molto, ma molto meno famosi e osannati. Neil Barry Moss scrive nel pieghevole che fa da programma di sala: “Negli ultimi mesi non è stato possibile inscenare nessuna opera: né prove, né recite con il pubblico. Non abbiamo potuto vivere il nostro amore per il teatro. E con ciò ci è mancato qualcosa di essenziale e profondamente umano, il teatro in tutte le sue varianti. Ci è sembrato come se un Alberich ci avesse derubati del nostro tesoro e rinunciato al teatro, avesse sì maledetto l’amore per il teatro, Con questo Rheingold nel parcheggio ricominciamo: torniamo a recitare!”

Infatti, nella recita, il fantomatico tesoro del Reno è rappresentato dal libercolo della stagione teatrale, che viene di volta in volta rubato da Alberich e poi da Loge e Wotan.

Dobbiamo dire che il livello del cast è stato notevole, come d’altronde è la norma quando si tratta di Deutsche Oper. Molto brave e affiatate, sia vocalmente sia scenicamente le ondine Elena Tsallagova (Woglinde), Irene Roberts (Wellgunde) e Karis Tucker (Flosshilde), ottime presenze vocali quelle di Derek Welton (Wotan), Annika Schlicht (Fricka), Philippe Jekal (Alberich), Tobias Kehrer (Fafner) e Andrew Harris (Fasolt).

A eccellere, in particolare, il Loge dell’ottimo Thomas Blondelle, già notevole interprete wagneriano, dalla voce possente e squillante ma anche molto duttile nel rendere la furbizia del mercuriale dio del fuoco. Blondelle spicca per fraseggio, presenza vocale e scenica e per un notevole carisma attoriale. Come tenore wagneriano è una garanzia - già l’aveva provato cantando con impeto e generosità nei panni di Parsifal all’Opéra du Rhin, lo scorso febbraio.  Inoltre, da ricordare la notevolissima performance di Judit Kudasi, che, con la sua solenne e sontuosa vocalità, si è rivelata perfetta per la breve ma ieratica comparsa di Erda.

L’orchestra della Deutsche Oper, posta sul ballatoio sopra il piccolo palco, composta da solo ventidue elementi, ha fatto dimenticare l’esiguità dell’organico. Merito sicuramente anche del riarrangiamento di Jonathan Dove, che veramente è riuscito pur con così pochi elementi a mantenere intatta la solennità delle pagine wagneriane, soprattutto quelle magnifiche finali dell’entrata al Walhalla.

Molto bravo il direttore Donald Runnicles a tenere le fila dell’orchestra in una posizione insolita e scomoda - ha dovuto dirigere non solo gli orchestrali davanti a sé ma anche i cantanti dietro di sè.

Se tutto sommato nella regia si sono potuti riscontrare alcuni dei classici luoghi comuni delle rappresentazioni moderne tedesche (e non solo) - il concetto di “teatro nel teatro”, costumi decisamente kitsch, spari di stelle filanti etc - questi si sono rivelati dettagli ininfluenti o perdonabili. Il pubblico ha ben compreso l’eccezionalità dell’evento e ha apprezzato commosso lo sforzo comune ddi tutti, di orchestra solisti, regia, drammaturgia, personale artistico e non artistico - lo sforzo, cioè, di fare nuovamente “opera” in una modalità totalmente diversa e inconsueta.

Quello che è parso evidente fin da subito a tutto il pubblico berlinese è che si può emozionare il pubblico con ottimi solisti - senza che questi siano necessariamente delle star strapagate -, con una buona orchestra anche se dimezzata, con un buon regista anche senza lustri di esperienza pregressa, anche fuori dalle sale tradizionali, e anche con poco pubblico.

A ben vedere, anzi, il pubblico limitato e lo spazio ristretto hanno dato un fascino in più a questa rappresentazione: quella dell’inclusione con gli artisti. Una dimensione inclusiva che è stata sperimentata da generazioni nella prosa - come ad esempio nel buon vecchio living theater degli anni 60 - ma molto meno nell’ambito dell’opera, ambito purtroppo malato di divismo, élitarismo kolossal e controproducente tradizionalismo.

A fine rappresentazione, un pubblico visibilmente emozionato ha applaudito in piedi e chiamato a più riprese tutto il cast.
Cosa ci può dire questa rappresentazione, però? È una soluzione sostenibile? Si potrà riprodurre o rimarrà un evento eccezionale?

Di sicuro non è una soluzione duratura e di certo non tutte le opere si possono prestare a questa forma. Però è un segnale, che un certo modo élitario e kolossal di intendere le produzioni operistiche non è più sostenibile, se mai lo è stato.

In tempi di crisi a volte bisogna riscoprire l’umiltà di reinventarsi in modi più modesti per sopravvivere - e in questo caso, significa proporre formati e luoghi nuovi, in economia, ovvero non puntare alle star blasonate o alle primedonne, ma ai talenti meno famosi, ad esempio. A volte non è nemmeno necessario “reinventare la ruota”, è bastato ripescare una soluzione sperimentata già trent'anni fa, come appunto questo lavoro di Dove e Vick sull’opera wagneriana.
Da non dimenticare il costo dei biglietti: economico per tutti, con donazioni volontarie.

Ma soprattutto una è la via indicata da questa recita: l’inclusione del pubblico, tramite spazi e messinscena più piccole, più intime, più vicine al pubblico in tutti i sensi, ovviamente nei limiti delle norme consentite.

Questa performance del Rheingold ci indica, insomma, che uscire dalle gabbie dorate delle sale teatrali è una necessità: si può, ma soprattutto si deve.

Mai come ora pare azzeccata la battuta del leggendario ex direttore della English National Opera, John Berry al World Opera Forum di due anni fa, “Se il mondo dell’opera non esce dalle proprie sale, muore”. C’è voluta una pandemia per confermarlo.


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