L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

L'altra faccia della Luna (d'Alabama)

di Roberta Pedrotti

Il nuovo dittico in cartellone al Teatro alla Scala, con l'ultima e la prima collaborazione fra Bertold Brecht e Kurt Weill, è un susseguirsi di prospettive bifronti. In attesa del suo volto finale in streaming e tv, abbiamo esplorato dal vivo i suoi aspetti nascosti, in un teatro in cui, nonostante le porte chiuse, fervono nuovi progetti, come rivelato da Riccardo Chailly e Dominique Meyer.

Leggi anche la recensione della trasmissione Streaming da Milano, Die sieben Todsünden / Mahagonny Songspiel, 18/03/2021

Milano, 17 marzo 2021 - Il cielo è limpido, il sole comincia a scaldare, Milano, così poco caotica e affollata, sembra più bella, perfino. Ma i portoni della Scala sono serrati, invece del solito affollarsi di locandine d’opere, balletti, concerti, solo due affissioni si alternano nelle bacheche: un ringraziamento a chi - fra sponsor, partner o cittadini e associazioni che hanno rinunciato ai rimborsi - resta vicino al teatro, l’annuncio del dittico Weill/Brecht che si potrà vedere solo in streaming e tv. Il bel sole di marzo illumina lo iato. Per strada, chi con una scusa, o anche senza nemmeno cercarla, toglie la mascherina o la indossa malamente sotto il naso e sotto il mento; nei grattacieli a due passi dalla stazione chi non predispone la campagna vaccinale; on line chi si mette di traverso alla campagna vaccinale. Insomma: chi ostacola la fine della pandemia. E, dall’altra parte, la porta sbarrata del teatro, la programmazione ridotta all’osso, predisposta e annunciata con mille cautele mese per mese, senza vero pubblico in presenza, la musica dal vivo che non può ancora sostituire le sirene delle ambulanze e i rintocchi funebri dei campanili. 

Allora, bisogna entrare nel meccanismo per ricordare che qualcosa non va, toccare la carne viva, uscire dall’anestesia delle vite in simbiosi con lo schermo, o incoscienti dimentiche di tutto. Dalla Scala si può entrare solo per lavoro, dalla portineria con il personale, gli artisti, le maestranze. Si lasciano alle spalle camerini e uffici, si spia il ventre della sala, già con il viavai di tecnici e musicisti, dalla porticina che dà al golfo mistico, si torna alle scale familiari, da un ordine all’altro fino alle gallerie. Ma quel che vediamo è, ancora, uno spettacolo frammentato. L’immagine di un mondo diviso in due, e ancora in due, e ancora in due. Non siamo pochi intimi addetti ai lavori che assistono allo spettacolo; siamo pochi intimi addetti ai lavori che testimoniano come oggi lo spettacolo si dibatta per nascere. Non è questo il prodotto finito, la performance unica e irripetibile, ma lo strano limbo di una prova che non vedrà la luce, di una registrazione ancora da assemblare, ma che avrà la sua forma con la fotografia, le inquadrature, il mixer che risistema gli equilibri (la disposizione attuale, con le inevitabili distanze, fa sì che per chi ascolta in sala goda un’orchestra superba ma percepisca le voci in lontananze). Eppure, in questa gestazione si percepisce il dolore e l’affetto. Più di una volta, anzi, ci si commuove, come se quelle mura, pur rinnovate, ferite e ricostruite nella storia, ricordassero la prima Europa riconosciuta di Salieri, i palchi frequentati da Stendhal e l’esplosione rossiniana con la “Sigillara” (La pietra del paragone), Bellini, Donizetti, il primissimo Verdi e l’estremo, Toscanini che posa la bacchetta dopo la morte di Liù, i trionfi della Callas, l’abnorme Licht di Stockhausen… via via fino a quell’ultima Tosca, quell’ultimo Sant’Ambrogio affollato, fiorito e festoso. Sembra che tutti questi duecento e più anni siano ancora lì, tutti insieme, a resistere, a invitare a ricomporre le tessere del mosaico.

La scelta dei titoli riflette questo continuo dualismo. Che il recital di Kate Lindsey di domenica [Streaming da Milano, concerto Lindsey/Trotignon, 15/03/2021] fosse una metà di un intero lo avevamo immaginato e lo vediamo confermato già nel costume/abito di scena pressoché identico. L’altra metà, che pure la vede protagonista, è composta da due unità concepite drammaturgicamente come un tutt’uno. Ed entrambe sono pièce atipiche: Die sieben Todsünden, l’ultima collaborazione fra Bertold Brecht e Kurt Weill, si definisce “balletto cantato”, ma non è, alla fine, né un’opera, né un balletto, né altro. è quel che è, o quel che si crede. Di certo è doppia anch’essa, perché la protagonista Anna si riflette in due interpreti e due anime complementari, così come doppia è la morale borghese, com’è bifronte l’identità di peccati e virtù. Dall’altra parte c’è Mahagonny, la prima Mahagonny, la piccola Mahagonny che inaugura la collaborazione Brecht/Weill (ancora il doppio!) e si svilupperà poi nel capolavoro del 1930 Aufstieg und Fall der Stadt Mahagonny. La popolano ancora Anna I e Anna II come Jessie e Bessie, la famiglia - che, lo ricordiamo, è composta tutta da voci maschili - come Jimmy, Bobby, Billy e Charlie. Tutti un po’ sperduti, a dire il vero, in questa sorta di suite/cartone preparatorio a cui manca ancora la figura catalizzatrice di Leokadja Begbick, ma in questo disorientamento di figurine quasi anonime alla ricerca dissennata di un paese dei balocchi che si sfalda nelle loro mani sta anche il valore del Mahagonny Songspiel. Soprattutto, del Mahagonny Songspiel oggi. Non per nulla, lavorando con materiali di recupero a budget quasi annullato, Irina Brook colloca tutto lo spettacolo su un palcoscenico/zattera/isola. Metateatro sfacciato - ovvio, è Brecht - e arte naufraga, ma salva e salvifica. Intorno, spazzatura, un mare di plastica che assedia, soffoca, rappresenta l’incoscienza di un mondo usa e getta, la stessa idiozia di chi non pensa al domani ma si sente grande fra (pseudo) ribellioni no-vax o no-mask, le stesse che allontanano il ritorno in teatro. E, intanto, il mare di plastica scintilla, sembra quasi bello, finché tutto non precipita e si sbatte in faccia al pubblico la sua natura di rifiuto infestante. Il tripudio, malato, del capitalismo, nella mancanza di valori e spirito critico. I vizi diventati virtù, la morale borghese usa e getta si rinnova al tempo del web. Dal vivo parla soprattutto come personaggio lo spazio scenico, ma lo spettacolo è nato e pensato per passare attraverso la telecamera: si (ri)vedrà. Intanto, se le voci a tale distanza finiscono per farsi sopravanzare dall’orchestra distesa in platea, non sarà demerito dei solisti, ma oggettiva contingenza acustica che si rimedierà poi per il pubblico a casa, anche se fa bene ricordarlo, sbirciare dietro le quinte per continuare a pensare a cosa sia uno spettacolo dal vivo e cosa sia ora la reinvenzione per microfoni e telecamere. Senza se e senza ma, ad ogni modo, si gode la resa dell’orchestra della Scala sotto la guida di Riccardo Chailly. La si gode anche al di là di quello che passerà, perché è importante testimoniare il gusto, la gioia di suonare insieme, scambiar battute, improvvisare scaldandosi e accordandosi che sfocia perfino in un preludio al terz’atto di Lohengrin buttato lì, prima della recita/registrazione. E poi arriva un Kurt Weil così meravigliosamente nero, cupo, cattivo, ma che pure brilla, danza, sogghigna: un Kurt Weill che è davvero un grande del Novecento, capace di concentrare il suo genio in una danza sghemba, in uno scheletrito recitar cantando o in una melodia che ti si appiccica addosso come l’Alabama song. Già, l’Alabama song. Tanto irresistibile da ritornare da oltre novant'anni in mille forme e per mille bocche, anche con i Doors, la cui versione del 1968 - Chailly benedicente - si diffonde in chiusura, dopo le ultime battute dell’orchestra. Perché no? Non è anche questa un’espressione del genio bifronte di Kurt Weill (e di Bertold Brecht)? Ora aspettiamo di risentire e rivedere tutti i tasselli del mosaico nella loro destinazione finale, non la recita a porte chiuse, ma l’incontro con il pubblico costretto a casa.

Nel frattempo, nelle porte chiuse, dopo aver spiato la macchina della scena, spiamo la macchina dei progetti. Il teatro è chiuso, ma dentro c’è più luce che nelle strade vuote sotto il sole: il sovrintendente Dominique Meyer e il riconfermato direttore musicale Riccardo Chailly parlano di futuro. Ovvio, per ora i programmi si possono annunciare solo mese per mese (e in aprile ci sarà un ghiotto concerto dedicato a Stravinskij); ancor più ovvio, i cartelloni per i prossimi anni dipenderanno anche dall’evolversi della situazione e dovranno tener conto degli impegni rimodulati degli artisti, di impegni da rispettare, né è realistico mettere in cartellone a cuor leggero titoli di durata troppo estesa. Però, il programma c’è, già steso fino al 2025, c’è la promessa di annunciare la nuova stagione, come da tradizione pre pandemica, in maggio, si parla di grande attenzione all’opera italiana, di proseguire il percorso pucciniano ma anche di tornare al belcanto (è nell’aria un Rossini serio) e di non trascurare la produzione più recente e il repertorio internazionale. Soprattutto, c’è determinazione a fare, progettare, guardare avanti. La Scala ha le porte chiuse, ora, ma lavora. 

C’è sempre un doppio, un’altra faccia della medaglia, o della luna dell’Alabama: là fuori, sotto il sole o nella compulsione di post, like e commenti, non sembra esserci né passato né futuro; nel teatro, pur chiuso, c’è la luce riflessa e rifratta mille volte, non resta che farla splendere ancora.

foto Brescia Amisano


 

 

 
 
 

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