Gioia e rispetto
di Sergio Albertini
Riapre al pubblico e all'opera il Teatro Lirico di Cagliari con Don Pasquale. In una serata all'insegna del rispetto e delle giuste precauzioni, comunque appagante ed emozionante, si segnala soprattutto l'ottima prova della compagnia di canto.
Cagliari, 17 maggio 2021 - Cominciamo dalla fine. Dopo i meritati applausi, sul palcoscenico appare il Sovrintendente del Teatro Lirico di Cagliari, Nicola Cobianchi. Poche parole al microfono. "Grazie di essere stati qui. Bentornati a teatro". È questa, forse, l'operazione più importante, la scommessa, la speranza che alberga in tutti, pubblico e maestranze artistiche. Un “ritorno”. Non è un ritorno puro e semplice. Gli spettatori ammessi sono non più di 400, come da normativa. Tutti rigorosamente con mascherina. Tutti pazientemente in fila lungo la scalinata esterna che conduce al teatro. Lungo un tappeto rosso delimitato da arbusti targati Sgaravatti che il lieve maestrale fa ondeggiare in quest'avanzata primavera. Ci sono hostess sorridenti a misurare la temperatura, ad offrire il necessario igienizzante. La sala, svuotata per oltre la metà dalle poltrone, è occupata dall'orchestra, un leggio singolo per strumentista. I fiati in cabine chiuse su tre lati dal plexigas. È sì, un ritorno. Con precauzione, e la giusta preoccupazione. Ma il pubblico del teatro (tolti i soliti cafoni con cellulare a tutto schermo, ora chattano, ora scattano foto con flash) è consapevole, e va elogiato per la compostezza e il rigore rispettoso delle regole. È una festa, dopo una stagione che si interruppe a marzo 2020 e che per lungo, troppo lungo tempo è andata avanti con lo streaming. C'è contentezza, c'è emozione.
E poi, c'è lo spettacolo. Don Pasquale di Donizetti. Uno spettacolo nato nel dicembre del 2013 come inaugurazione della stagione lirica del Teatro Filarmonico di Verona [leggi: Verona, Don Pasquale, 15/12/2013], e dallo stesso teatro ripreso nel febbraio 2019 [leggi: Verona, Don Pasquale, 24/02/2019]. Per quello spettacolo, la vicenda, anziché a Roma, (città che Donizetti ben frequentò e dove conobbe la sedicenne Virginia, sua futura moglie, e il cognato Antonio, confidente epistolare di tutta la vita) venne ambientata (vagamente) in Valpolicella, quella zona collinare del veronese celebre per la cultura dei vini, specialmente dell'Amarone (il cui nome fa bella mostra sulle casse di vino che appaiono in scena all'ultimo atto). Così, allora, il povero Ernesto nella sua lettera d'addio a Norina lascia 'Verona' (con una piccola modifica nel testo del libretto), mentre qui vien nominata 'Cagliari' (e allora tanto valeva rendere quei vigneti ogliastrini, e nelle casse apporre il nome di Cannonau...). Qualche piccolo aggiustamento in tempo di pandemia: nella versione veronese, ad esempio, con una trovata che ancora sollecita gli 'ooooh' di un pubblico provinciale, il coro irompeva in sala, tra il publico, intonando il proprio “Che interminabile andirivieni”, mentre qui si è ripiegato giustamente sul lasciarlo tra le vigne.
Eccola, quindi, la regia di Antonio Albanese, uomo di teatro, uomo di cinema e televisione, alle prese con una regia d'opera. Che niente aggiunge di nuovo, costruendo uno spettacolo molto modesto dal punto di vista attoriale, e fragile nella resa drammaturgica. Ad esempio, è ben chiaro che, libretto alla mano, Norina entra in scena leggendo un libro, e che le parole iniziali della sua cavatina (“Quel guardo il cavaliere” sino a “non volgeria il pensier”) sono una lettura ad alta voce di quel libro. Virgolettate nel testo. Qui, Norina si inoltra nel vigneto fino ad affiancarsi ad una contadina, questa si, che sta leggendo un libro. E far concludere la sua cabaletta con due contadini che la afferrano per i suoi due polsi facendola cadere all'indietro non è proprio, scenicamente, una gran trovata. L'uso dei servi, poi, in più punti distrae e distoglie non poco: ad esempio, ad inizio atto II la didascalia del libretto chiede “Ernesto solo abbattutissimo”. Il tenore intona – e in questo caso, un Marco Ciaponi da antologia – il malinconico “Cercherò lontana terra”. Isolato da un fascio di luce all'estrema sinistra del palco. Purtroppo, sulla estrema destra della scena, una comparsa armeggia con bottiglie di vino, ne tracanna il contenuto, e, in una parola sola, non fa altro che disturbare l'ascolto con le sue azioni. Così come, nel duetto tra Norina e Malatesta, ad ogni mossa (giusta) della prima ai suggerimenti del secondo (“mi volete mesta?”, “ho da pianger?”, “bocca stretta”), cinque comparse dietro di lei ne scimmiottano i gesti. Di casi ce ne sarebbero tanti altri, cito per ultimi i servi di scena che pian piano riempiono la casa vuota di Don Pasquale di mobilia e suppellettili. Bene, nei bozzetti di scena riprodotti sul programma di sala (smilzo, ma ben curato) si può notare come la quadreria di nature morte riproducenti cacciagioni sia disposta in doppia fila sulle due pareti di fondo, mentre in realtà due quadri son stati lasciati ad altezza pavimento. Piccole e numerose 'distrazioni' che forse son sfuggite ad un pubblico comunque ben contento di rivivere con un'opera dal vivo. Ma Albanese, presente alle prove, forse avrebbe dovuto regalare loro una maggiore cura.
Musicalmente l'elogio va ad un'orchestra del Lirico in forma smagliante, soprattutto nelle sue prime parti. Di estrema brillantezza la sezione dei legni e degli ottoni, con la bella prova della prima tromba nell'apertura del II atto, solo in scena a sipario chiuso. L'acustica, a mio avviso, penalizza soprattutto la dinamica dal mezzoforte in su, creando un impasto sonoro non troppo dettagliato e elevando una diga sonora che blocca la proiezione del canto dei solisti. Sono forse aggiustamenti che solo affrontando questa nuova disposizione in platea potranno essere via via monitorati, ed eventualmente corretti.
Francesco Ommassini, giovane direttore, cerca un'identità narrativa al suo Don Pasquale senza approdare ad una chiave di lettura personale. C'è la tinta malinconica dove la musica lo chiede, c'è la leggerezza ove richiesto, c'è la brillantezza nel sillabato di Malatesta e Don Pasquale, ma – come per la regia di Albanese – l'opera par dipanarsi di suo.
Il cast, interamente italiano, possiede diverse eccellenze. In primis, l'Ernesto di Marco Ciaponi. Il suo canto pare appartenere ad un altro tempo, tanto prezioso, cesellato, raffinato è: certe messe di voce appena abbozzate per far crescere o decrescere impercettibilmente il suono, dei pianissimi eterei e ben sostenuti da un notevole fiato, un fraseggio che evoca in filigrana l'antica scuola d'uno Schipa o d'un Valletti, delle bellissime variazioni (sarebbe interessante sapere se son opera del direttore o del cantante stesso), acuti folgoranti e tenuti a lungo. Una lezione di classe e di stile che avrebbero meritato maggior attenzione nella cura scenica del suo personaggio da parte di Albanese (che pure lo ha avuto in scena nell'edizione veronese del 2019). Altra eccellenza, il Malatesta di Vincenzo Taormina: una voce (piena, rotonda, brunita) che riusciva a sfondare la 'parete' sonora che giungeva dalla platea. Paolo Bordogna è il baritono (spesso in parti di buffo) che ben si conosce: a lui basta la giusta mimica (degno erede di Corbelli), un'esitazione, un pulirsi gli occhiali, ed è già teatro. Se di grande efficacia è il malinconico rimirarsi allo specchio, quel “un foco insolito mi sento addosso” con inseguimento dal vago sapore sessuale nei confronti della governante è un'altra caduta di stile registica (e le risatine, invero, son state poche anche tra il pubblico). Di grande precisione il sillabato in duo con Taormina che avrebbe meritato forse un applauso ancor più caloroso. Resta Lavinia Bini, debuttante nel ruolo. Terribilmente addobbata con vestiti (che a chiamarli costumi si fa peccato), una mini-salopette iniziale (che lascia immaginare essere altra contadina al servizio di Don Pasquale), un impermeabile con foulard e occhiali da sole (che sostituiscono il “velo” in libretto), degli hot pants rossi, un abito da soubrette che voleva forse esaltarne una presunta volgarità, esordisce con una cavatina in cui la voce sembra non trovare adeguato sostegno. Nel corso dell'opera l'opacità iniziale viene recuperata e superata appieno: il timbro è gradevole, il registro acuto rimane però sfiorato con cautela. Scenicamente è lasciata fondamentalmente sola da Albanese (nel terzetto e nel quartetto finale siamo al solito gioco delle belle statuine). Il notaio, Alessandro Abis, è poco più di una macchietta: tutta risolta con un ciuffo sempre fuori posto, e la solita vocina nasale di circostanza.
Resta da dire ancora delle scene, di Leila Fteita: una grande parete scorrevole a tutta altezza colma di bottiglie vuote. Questa assenza, questo vuoto, vorrebbero forse evocare il vuoto esistenziale di Don Pasquale ? Chissà. Di fatto, poi, Ernesto entra con un calice di rosso, uno dei servi trascina e sbevuzza bottiglie di rosso. Per renderne appieno lo stupore e la magnificenza, chissà, forse vederle piene non guastava. Dietro questa parete mobile, una vigna ricavata su una collina crea un bell''effetto, ma misteriosamente alla fine s'è trasformato in un roseto (un capriccio della dispettosa Norina ?). Cielo stellato secondo la più pura delle tradizioni teatrali. Resta un mistero come i contadini, entrando nella biblioteca di bottiglie vuote, carezzino con stupore e meraviglia due sgabelli in plexigas trasparente in stile Kartell, come fossero poltrone di Mies van de Rohe o di Marcel Breuer.
Degli abiti di scena, sul programma di sala indicati opera di Carola Fenocchio “da un'idea di Elisabetta Gabbioneta” (autrice degli abiti per la produzione veronese: in gran parte sono gli stessi), in parte s'è detto: senza tempo (ma di foggia moderna), sembravano assemblati senza alcuna idea. Giacca, pantalone e maglietta nera girocollo per Malatesta, giacchetta stretta sui fianchi per Ernesto, e per l'incontro in giardino un mantello grigio con cappuccio rivestito di (pochi) fiori che dovrebbe servire ad Ernesto a mimetizzarsi nel giardino. Luci di Paolo Mazzon (ottime le puntature sui cantanti, suggestivo il farsi sera sopra la vigna) riprese da Andrea Ledda. Citazione ultima per il coro, preparato da Giovanni Andreoli: non solo è stato ineccepibile sul piano sia musicale che scenico, ma ha cantato con le mascherine. Un ringraziamento ulteriore per l'impegno.
Del successo s'è detto, dell'emozione pure. Continuiamo. Ne abbiamo (tutte e tutti) un incredibile bisogno. In scena, e fuori. E ricordiamo: i teatri sono un luogo sicuro.