Maggio, sesta Tosca per Mehta
di Francesco Lora
Alla vigilia dell’esecuzione concertistica al Festival di Pentecoste di Salisburgo, il capolavoro di Puccini ha avuto un’anteprima al Maggio Musicale Fiorentino, col direttore onorario a vita sul podio e le eccellenti maestranze del teatro; compagnia di canto in parte diversa da quella salisburghese: Saioa Hernández, Francesco Meli e Luca Salsi.
FIRENZE, 19 maggio 2021 – Zubin Mehta ha compiuto 85 anni e da una sessantina ha Tosca nella bacchetta: a Firenze l’ha diretta nel 1965, 1986, 1991, 2005 e 2010, fino all’esecuzione concertistica qui recensita. Il capolavoro di lettura rimane ed evolve, soprattutto se le compagini a disposizione del maestro sono l’Orchestra e il Coro del Maggio Musicale Fiorentino: quelle, cioè, da lui modellate a propria immagine e somiglianza, attraverso decenni di collaborazione; quelle che per loro scintillante natura paiono, in assoluto, le meglio tagliate su questa partitura di Puccini. Mehta mira asciutto al punto, con svelta esattezza di gesto, senza effettismo o calligrafia; eppure non si potrebbe ascoltare altrove una Tosca più flessuosa, voluttuosa, fascinosa di questa, mossa in un palpito agogico di strabiliante scienza narrativa ed evocativa, ambivalente nel fulgore di restituzione sinfonica e nella sottigliezza di sfogo teatrale. Nel lavoro di Mehta e delle maestranze, quella del 19 maggio al Teatro del Maggio era l’anteprima di uno spettacolo concepito per il Festival di Pentecoste di Salisburgo; è stato là dato cinque giorni dopo, con stelle tra le più costose del firmamento canoro nonché con rimpiazzi di lusso nelle prime parti: Anna Netrebko è stata sostituita da Anja Harteros ma l’ha poi sostituita a propria volta, Jonas Kaufmann è rimasto al suo posto e Bryn Terfel ha passato il compito al ben più fresco baritono scritturato a Firenze.
Si parta allora col riferire di quest’ultimo, Luca Salsi, interprete ottimo e massimo della parte di Scarpia. Lo si ammira a maggior ragione poiché la parola, croccante, lusinghiera o corrosiva, è da lui meticolosamente articolata in primo piano su un canto di straordinaria dotazione, il quale basterebbe da solo a far grande la serata. La voce è infatti sempre duttile e legata tra registri, timbrata, risonante, con una fragranza di colori che al melomane mette l’acquolina in bocca come la vetrina di una salsamenteria. E se l’attore elegge modi protervi, bisogna anche dire che lo fa sfumando a oltranza, lontano da banalizzazioni veriste: né va dimenticato che il personaggio, dietro il titolo di barone, è in verità un piccolo nobile senza antichità, forte di un momento storico tra i più disordinati, dissimulatore e non già campione di modi da gran signore.
La compagnia schierata al Maggio Musicale Fiorentino coincideva perlopiù, accanto a Salsi, con quella della Tosca inaugurale nella penultima stagione della Scala; la parte protagonistica è spettata però non alla Netrebko, bensì alla collega che a Milano si era fatta carico delle ultime recite: Saioa Hernández. Discorso delicato intorno a questo soprano di grido che, dal 4 giugno, apparirà a Firenze anche come Leonora nella Forza del destino: pregi e mende non solo convivono, ma nella percezione odierna, influenzata da partigianerie inesperte e mercato senza scrupoli, possono anche essere confusi tra loro. Il personaggio di Floria sbiadisce vicino alla cantante che tenta un’infruttuosa, anacronistica, impossibile imitazione di Renata Tebaldi: la linea di canto – dieci anni fa invidiabile per naturale continuità timbrica – vede ora frantumato in note singole il fraseggio, slegati i registri, esibito a ogni occasione un inopportuno registro di petto; il porgere si fa arrogante, matronale, marmoreo per fredda inerzia espressiva; non rimane traccia dei caratteri di innocenza, giovinezza e tenerezza innamorata, a vantaggio di un’impettita virago che tuona «Vissi d’arte» quasi fosse una rabbiosa imprecazione a pugno chiuso verso il cielo anziché un attonito ripiegamento davanti al tacere della provvidenza. Spiace. Spiace poiché nel rigido metallo perseguito dalla Hernández agonizza tuttora un’eco della malìa timbrica di Montserrat Caballé; spiace poiché il registro acuto vanta una risonanza, una saldezza e uno squillo impressionanti, degni di più artistico uso (si ascoltino le sfolgoranti progressioni sulle ondate orchestrali, nello scontro con Scarpia; si ascolti, com’è ovvio, la «lama» nell’atto III); spiace poiché, a volerlo, la Hernández sa additare la strada giusta: per esempio quando, arrivata a «E avanti a lui tremava tutta Roma!», sceglie di cantarlo, alla maniera di poche grandi, anziché di sbraitarlo, alla maniera di quasi tutte.
Improbabile risulta l’ardore tra questa Tosca e il Mario Cavaradossi di un tenore che ambisce al lirico-spinto ma è protetto, nella bontà stilistica, da un passato come tenore di grazia: il solito Francesco Meli, tutto comunicativa e passione all’italiana, sempre amoroso, mai erotico, che tanto meglio canta quanto più canta piano e che a furor di popolo deve bissare «E lucevan le stelle» (a proposito: brutta, brutta, brutta e dura a morire quell’abitudine che Mehta ha di fermare a priori il discorso musicale, allo scopo di far prendere gli applausi ai cantanti prima ancora che il pubblico ne manifesti la volontà; le intenzioni del compositore, l’accumulo di tensione teatrale e il senso stesso del testo ne escono bistrattati). Tra i caratteristi, infine, ecco lo sfarzo ineffabile di Alfonso Antoniozzi: come Sagrestano, è l’esempio di un cantante d’altra e nobile generazione, che ormai si concede soltanto per proprio diletto e che dalla sua particina illustra anche, a mo’ di accidente, la voce che nel contesto ha il più importante volume.