Aida all’italiana (ma come Brahms)
di Francesco Lora
L’Arena di Verona festeggia il centocinquantesimo del capolavoro di Verdi con due memorande esecuzioni in forma di concerto, dirette da Riccardo Muti e col canto di Eleonora Buratto, Anna Maria Chiuri, Azer Zada, Ambrogio Maestri, Riccardo Zanellato, Michele Pertusi e Benedetta Torre.
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VERONA, 19 giugno 2021 – Trentatré ore prima del solstizio d’estate la luce abbonda ancora, piazza Bra scoppia di vita e le rondini garriscono volteggiando a pieni stormi. Ma notturna, introversa, sommessa è l’Aida pronta a uscire dalla bacchetta di Riccardo Muti. Prima aveva diretto una sola volta all’Arena di Verona: nel 1980, una Messa da Requiem sempre di Verdi, nel lutto nazionale seguìto alla Strage di Bologna. Quarantun anni dopo, al decano dei concertatori italiani e degli esegeti pratici verdiani tocca invece, inaugurando la stagione areniana, festeggiare il centocinquantesimo dell’opera-icona dove si trionfa, marcia e danza favoleggiando gli elefanti, dove molti attendono al varco il Si bemolle di lui e il Do sopracuto di lei e dove tutti vorrebbero poter cantare la parte di Amneris. Dalla mente dell’autore, però, Aida è uscita innanzitutto come delimitato triangolo amoroso, come capolavoro di drammaturgia musicale sottile e di alchimia della strumentazione. Muti – è ovvio – lo sa e lo professa: conosce ed esegue quella partitura dai suoi trent’anni, l’ha poi spesso promessa ma quasi temendo di tornarvi, l’ha infine rimeditata riversandovi ogni minuziosa cura. Si fa presto a dire che egli diriga un’Aida intima: non è vero, non basta, poiché nella sua attuale lettura permangono le esplosioni grandiose, il compiaciuto turgore orchestrale di chi sa ancora lavorare sul suono, un’agogica pur sempre svelta, incalzante e vivida, dove c’è sempre l’inesorabilità dell’azione a pungolare l’occasione di estasi. Il punto è che Muti dirige Aida non come la giusta popolarità l’ha anche corrotta, inducendo a semplificare e banalizzare, bensì alla maniera di una veneranda partitura sinfonica di Brahms: la fa respirare, vi gioca luci e ombre, chiede il sussurro e insieme lo schianto, risveglia il dettaglio timbrico o armonico che fa sobbalzare, riscatta la statura più che europea di quel linguaggio musicale sopraffino, flette ogni frase in quel suo naturale palpito che non può essere messo per iscritto ma fa anch’esso parte del testo. Due esecuzioni in forma di concerto, il 19 e 22 giugno, con Giove Pluvio ammonito di non fare scherzi: forse non si erano mai ascoltati l’Orchestra e il Coro dell’Arena così orgogliosi di saper lavorare bene.
Eppure del lavoro di Muti si è finora detta la parte minore. Quella maggiore è nel lavoro sulla parola e con i cantanti: questa Aida in forma di concerto non ha altra regìa che quella musicale di Muti, e ad ascoltarla si sogna la dispersione di troppi imbonitori teatrali coi loro Konzept. La condizione di tale perfezione è quella che i teatri lirici internazionali sistematicamente – cioè proprio per sistema: culturale e di mercato in primis – ignorano. Ossia: disporre di una compagnia di cantanti italiani per eredità, fonetica, materiale, educazione, perspicacia, idiomaticità; proprio ciò che nell’Aida veronese avviene, quasi al completo dei casi, in via straordinaria e talvolta fortunata. Nella parte del titolo doveva debuttare Sonya Yoncheva. È invece arrivata, anch’ella per debuttare, Eleonora Buratto. Mai una nota fuori posto, mai una sillaba persa; un calibro lirico, fresco e giovanile, che però corre per l’anfiteatro fino a riempirlo di suono anche nelle frasi psicologicamente ripiegate su sé stesse. Sbalordisce la comunicativa tutta scaturita dalla semplicità, alla maniera di Mirella Freni: soprattutto dall’area germanica e anglosassone è dilagato, e ancor più dall’ultimo dopoguerra, lo sciocco vezzo di esasperare ogni strumento interpretativo, sia musicale sia teatrale, allo scopo di dimostrare un controllo del ruolo tale che umilii l’autore stesso; così facendo, però, ogni personaggio diviene non più un esempio umano, bensì un caso di psicosi; la Buratto non colora questa o quella parola, individualmente, calligraficamente e stereotipicamente, come viepiù i suoi colleghi fanno, ma porge ogni battuta di Aida attraverso i di lei affetti, sognanti o afflitti che siano, e lo fa più depurando che aggiungendo. Ne esce una ragazza grande o misera per gli eventi, ma in sé anelante alla semplice normalità. A lavorare così, succede che il minimo gesto frutti il massimo effetto: nell’atto III, scena con Radamès, l’Aida della Buratto si carica d’improvviso nervosismo e il suo porgere si fa più enfatico; ed ecco allora, chiaro come non mai, che lì ella sta recitando e mentendo con l’amato, mentre sa di essere spiata dal padre. La più commovente e dotta Aida immaginabile, arrivata a far strame delle colleghe straniere e a consolare dalla nostalgia di Daniela Dessì.
Un’altra sorpresa arriva con Amneris e pone le due primedonne al timone attoriale di questa Aida. Anita Rachvelishvili, gravida, ha bisogno di riposo. Alla “prima” le subentra così Anna Maria Chiuri, che conosce bene la parte ma oggi è attiva perlopiù come caratterista. Supera sé stessa: ogni frase miniata e soppesata, ma visceralmente vissuta; ogni fraseggio elegantissimo, a illustrare quale alta idea Verdi abbia inteso mettere nero su bianco; ogni scatto di gelosia o ogni gorgo di rimorso della principessa egizia veicolato con le più aristocratiche risorse dell’arte canora. Bellissimo è quando, a partire dall’atto II, si vede Muti dirigere la Chiuri non più come si assiste l’ultima arrivata, ma raddoppiando l’entusiasmo, e quasi concordando con uno sguardo cosa di migliore si possa fare tra un concertatore così esigente e un mezzosoprano così forbito. L’anello debole è invece il tenore Azer Zada, comparso in luogo del previsto Francesco Meli: timbro radioso ma emissione tendente a retrocedere in gola, risonanza non propriamente areniana, grande maestria nello sfumare e legare registri di petto e testa. Il suo è un Radamès in grado di onorare i segni dinamici di Verdi, e da ciò – gran pregio – si capisce perché Muti lo abbia scelto; unico straniero, egli incontra però uno scoglio nella parola: il suo massimo punto d’arrivo è la correttezza fonetica, là ove per i colleghi essa è l’ovvio punto di partenza. Quarta sostituzione: nella vecchia locandina era annunciato l’Amonasro di Luca Salsi, mentre nella nuova si trova Ambrogio Maestri, sempre generoso in fatto di volume, encomiabile in fatto di modulazione e oggi più che allora capace di rendere anche la statura regale del personaggio. Tra le prime parti dell’opera, l’unico interprete rimasto invariato è invece Riccardo Zanellato, Ramfis granitico di materiale e funzionale di contributo. Non gli giova trovarsi accanto il più lussuoso Re d’Egitto mai scritturato: doveva essere il già notevole Roberto Tagliavini ed è divenuto addirittura Michele Pertusi, il solito maestro di canto e stile che ci si sentirebbe simoniaci a voler recensire nei dettagli. Altro cameo nella duttilissima Sacerdotessa di Benedetta Torre, e comprimariato d’oro nel limpido Messaggiero di Riccardo Rados.