Vivaldi: Farnace. Chi?
di Francesco Lora
Lo spettacolo andato in scena al Malibran per il Teatro La Fenice ha alla base un problema di testo, a dispetto di una lettura capace di alti esiti, dalla direzione di Diego Fasolis al canto di Lucia Cirillo, Sonia Prina, Rosa Bove e Valentino Buzza in particolare.
VENEZIA, 2 luglio 2021 – Nessun titolo più che quello di Farnace accompagnò gli ultimi, maturi quindici anni dell’attività operistica di Vivaldi. Egli ne licenziò sette differenti versioni: Venezia 1727 (la stesura originale per il carnevale e una prima revisione già in autunno), Praga 1730, Pavia 1731, Mantova 1732, Treviso 1737 e Ferrara 1739 (quest’ultima composta ma poi non andata in scena). Soltanto quella di Pavia 1731 è conservata per intero, mentre di Ferrara 1739 sopravvivono i primi due atti; i libretti a stampa stampati per ciascuno spettacolo aiutano a identificare le eventuali arie superstiti che entrarono nelle restanti versioni. Questo il quadro. Una cosa è ormai risaputa, un’altra è da tenere a mente. Nel primo caso: Vivaldi rimodellò ogni volta l’opera, come libretto e come partitura, per incontrare le qualità e il gusto di cantanti e pubblici differenti. Nel secondo caso: non lo fece come vittima di un sistema sociale tirannico, ma col fiuto del suo essere tutt’insieme compositore, impresario e drammaturgo; in altre parole: ogni versione del Farnace o di una diversa opera vivaldiana si configura non come un rabbercio, ma come una sapiente ristrutturazione di equilibri, risorse e stili, sia musicali, sia canori, sia teatrali; in ciascuna occasione l’autore riaprì il testo e lo richiuse, senza abiurare alcunché e senza instabilità irrisolte: l’unico grattacapo insolubile è l’impossibilità di accedere ai materiali perduti.
La premessa sullo stato del testo – parole e musica – è necessaria a proposito del Farnace andato in scena, per cinque recite, dal 2 al 10 luglio, nel Teatro Malibran di Venezia e per conto del Teatro La Fenice: uno spettacolo che si è fatto a lungo attendere, dopo il doloroso rinvio dalla stagione scorsa, e che ha – o avrebbe avuto – modo di ben maturare. Il paragone virale non offenda: un’epidemia artistica dei nostri giorni consiste nell’insistito scambio di ruoli per il quale i musicologi (puri) vorrebbero fare i musicisti e i musicisti (puri) vorrebbero fare i musicologi; ciascuno dei due schieramenti può, del resto, contare su un uditorio sempre più casuale, disorientato e tollerante di bizzarrie, invenzioni e dilettantismi spacciati per rivelazioni. In questo caso, il direttore Diego Fasolis dichiara, nel programma di sala, di partire dalla versione di Pavia 1731 – intatta e pronta a essere eseguita tuttora – per ambire al ripristino di Venezia 1727 (quale delle due versioni, poi?). Un tale ripristino, nondimeno, può essere guidato dalla logica solo fino a un certo punto, e finisce per cadere, più oltre, nel più soggettivo degli arbitrii e nella disinvolta falsificazione delle limpide volontà di Vivaldi. Di fatto, si ascolta qui la versione pavese tumefatta con brani importati dalle altre versioni, con interi ruoli trasportati di registro, con recitativi gravemente sforbiciati e con arie che qui e là perdono il da capo, come si faceva nello stolido pionierismo di settant’anni fa.
Questa ‘edizione moderna’ a triplice firma di Renzo Bez, Andrea Marchiol e Alberto Stevanin non palesa basi scientifiche e contrasta il lavoro dei filologi oggi intenti alla corretta restituzione dei lavori di Vivaldi. Il direttore Diego Fasolis pare purtroppo incline, con molti e troppi altri colleghi, ad affascinarsi con questa merce contraffatta. Ciò duole tanto più per il fatto che egli è poi capace di letture musicali in sé eccellenti: anche in questo Farnace, come nelle altre tre opere vivaldiane da lui dirette a Venezia dal 2018, tutto scorre deciso, chiaro, vivido, con la musica che scoppia di salute sopra un’ammirevole sensibilità drammatica; sotto la sua guida, l’Orchestra e il Coro della Fenice trovano la necessaria forbitezza di gesto; a fare il capolavoro sarebbe bastato, insomma, non dar retta pinocchiescamente ai gatti e alle volpi, e lasciare l’opera, com’è, in una delle sue coerenti declinazioni d’autore. Il regista Christophe Gayral vorrebbe a sua volta sottoporre a stress il testo e trarne qualcosa di contemporaneo. In verità si limita – e va benissimo – a seguire la drammaturgia originale: con le scene di Rudy Sabounghi e i costumi di Elena Cicorella, l’opera è trasposta senza danno nell’odierno Medio Oriente e in un non troppo immaginario conflitto tra estremisti islamici e forze militari occidentali. Il lieto fine? Le parole di riconciliazione rimangono al loro posto, ma qualche colpo di machete chiude realisticamente i conti in pari.
La parte del titolo nacque contraltile a Venezia e divenne tenorile a Pavia. Per le recite annullate del 2020 era stato scritturato un controtenore, Carlo Vistoli, mentre per quelle recuperate nei giorni scorsi l’incarico è passato a un tenore, Christoph Strehl. Il nodo della questione, però, scivola dal giusto registro ad aspetti ancora più basilari. Che sono poi i soliti: Strehl è un ultracinquantenne di madrelingua tedesca e di educazione germanica; la sua organizzazione vocale palesa già senilità, affanno e dissesto anche poiché mai stata da autentico belcantista, e la sua prosodia italiana indulge a iperrealismi non idiomatici onde malcelare l’insufficiente possesso della lingua. È il primo uomo sbagliato. Qualcuno dirà che non è facile trovare di meglio. E invece no, è facilissimo: il tenore ideale per simili parti eroiche sta a un passo, ed è lo scolpito Valentino Buzza, interprete della parte di Pompeo. Cosa sia la perfetta prosodia italiana in seno al canto lo dimostrano poi le tre donne in locandina: Lucia Cirillo, per una Berenice ossessionata e affilatissima; Sonia Prina, per una Tamiri teneramente eroicizzante; Rosa Bove, per una Selinda che sa usare ironia e seduzione. Di nessuna si perde una sola sillaba o intenzione teatrale, e il canto fluisce naturale, sfumato e incisivo per ovvia conseguenza. Compagnia completata da David Ferri Durà, Aquilio di timbro accattivante, e da Kangmin Justin Kim, pungente e astratto Gilade.