Aida dei cent'anni
di Roberta Pedrotti
Lo Sferisterio di Macerata festeggia il centenario della sua prima opera con una nuova produzione del medesimo titolo, Aida con sul podio Francesco Lanzillotta e regia di Valentina Carrasco. In scena emergono il Radamés di Luciano Ganci e l'Amneris di Veronica Simeoni.
MACERATA, 23 luglio 2021 - La serata è già nella storia: cent'anni dalla prima opera data allo Sferisterio, sulla scena Aida, lo stesso titolo che nel 1921 il conte Pier Alberto Conti scelse con impeto romantico per il soprano Francisca Solari, felicemente poi seconda moglie del nobile maceratese. Il colore simbolo di quest'anno è, inevitabilmente, l'oro: l'anniversario si celebra nonostante la pandemia, in un clima che i vaccini hanno reso comunque più rilassato rispetto al 2020. I tour elettorali e i relativi presenzialismi magari invitano a usare con più cautela del solito la formula "pubblico delle grandi occasioni", ma il pensiero vola più alto delle miserie umane e si unisce alla sublime concordanza di popoli voluta da Verdi nel concertato del trionfo a dispetto delle parole d'odio dei sacerdoti.
Cent'anni, decennio più decennio meno, sono anche il fil rouge dello spettacolo di Valentina Carrasco, che attraversa l'Egitto dai tempi delle colonie e dei protettorati alla costruzione dei primi oleodotti e di raffinerie, agli sfruttamenti delle risorse e dei popoli con conseguenti tensioni e rivolte, per alludere, se non proprio ai giorni nostri, magari alle crisi petrolifere degli anni '70. Tutto senza puntare necessariamente a una precisa, documentaristica contestualizzazione, semmai amalgamando elementi in un linguaggio chiaro ed equilibrato (qualcuno però ponga fine alla leggenda della commissione di Aida per l'inaugurazione del Canale di Suez: si trattava invece di un progetto per accrescere il prestigio del teatro del Cairo, voluto dal Kedivé appassionato verdiano!). I primi due atti scorrono garbatamente senza dire molto altro che un semplice e innocuo, per quanto ben realizzato, ricollocamento temporale, poi nel terzo atto la suggestione notturna delle fiammelle fra luci azzurrine e dorate conferisce la giusta atmosfera a un'azione sempre più incisiva e definita, anche se la "fatal pietra" come uno scorrere letale di olio nero non si profila come la più convincente delle soluzioni. Da ricordare le scene di Carles Berga, i costumi di Silvia Aymonino, le luci di Peter van Praet e le coreografie ben inserite nella drammaturgia di Massimiliano Volpini.
Anche la concertazione di Francesco Lanzillotta va in crescendo. Si apprezza fin da subito la sobria ricchezza di dettagli, complice un'orchestra, la marchigiana Form, che va migliorando di anno in anno per qualità e duttilità di suono (i complessi in palcoscenico sono invece quelli della banda Salvadei con la partecipazione dei 100 cittadini). I distanziamenti, la riduzione d'organico, assommati allo spazio aperto rischiano, però, di isolare più che esaltare il momento cesellato, di dilatare le risposte, gli assestamenti gli incastri (da questo punto di vista il contesto impone qualche cautela in più anche al buon coro Bellini, preparato da un'autorità verdiana come Martino Faggiani). Quando cala la notte sul Nilo, e la compostezza della dimensioni pubbliche sotto le cui ceneri covano passioni e tensioni private cede il passo a fiammelle ardenti, allora la linea preziosa acquista mordente teatrale, coesione sempre maggiore, svicola esotismi descrittivi o gesti smodati per sfumare e incidere l'essenza delle sponde solitarie, di persuasioni, seduzioni, inganni, violenze e speranze, fino alla disperazione più nera, al tempo immobile che si astrae schiudendo il ciel.
Al debutto italiano come Radamés, Luciano Ganci fin dall'aria fa valere musicalità scaltrita, squillo, dizione chiarissima e modulata con franca intenzione. Ce ne rendiamo subito conto quando non abbandona "Celeste Aida" alla trappola della stucchevole cantilena, ma delinea attento ogni frase, ricerca colori e dinamiche che poi, superata qualche tensione occasionale, si concretizzeranno sempre meglio negli ultimi due atti, che poi son quelli cruciali per il suo personaggio. Basti pensare al buongusto con cui impone il suo “Sacerdote io resto a te” dopo aver ombreggiato a dovere il duetto con Aida, dopo la sincera e fiera disperazione alla scoperta di Amonasro. Nel quarto atto ribadisce fermo e orgoglioso una visione eroica ma non monolitica del condottiero, una visione matura, consapevole e credibile anche laddove emerge un'umana ingenuità.
Paradigmatica, per opposte ragioni, è, poi, la prova delle due primedonne rivali. Veronica Simeoni non avrebbe sulla carta i mezzi opulenti che ci si aspetterebbe per Amneris, ma esattamente come lo scorso anno nei panni di Azucena, s'impone con altre doti che non siano il tonnellaggio vocale o gli acuti sfolgoranti: non fa perdere una parola, si presenta sprezzante e sicura con fare sofisticato, mescola sicumera e sincerità in “Sì, pregherò” via via scivola nella drammatica, disperante consapevolezza dell'impossibilità di ottenere ciò che vuole, delle conseguenze fatali dei suoi gesti. Neppure Maria Teresa Leva è, sotto il profilo strettamente vocale, un'Aida ideale. Non fatica a farsi sentire e il colore di voce è senz'altro bello, seppur non inconfondibile, tuttavia l'emissione tende a stringersi e rifugiarsi nel falsetto con qualche stridore di troppo. È però proprio laddove Simeoni vince, nella parola e nel fraseggio, che Leva mostra soprattutto il fianco, con un tono genericamente dimesso e dolente che non arriva mai calamitare l'attenzione, tant'è che perfino i “Cieli azzurri” scivolano via senza un applauso.
Tale padre, tale figlia, anche Marco Caria non impone la sua personalità come Amonasro. Evita ogni eccesso barbarico, ma nemmeno coglie le occasioni che Verdi gli offrirebbe e che i suoi mezzi gli consentirebbero in “Quest'assisa ch'io vesto” e nel duetto del terzo atto. Alessio Cacciamani non è un Ramfis particolarmente autorevole, mentre convince Fabrizio Beggi come Re d'Egitto, Francesco Fortes è un buon messaggero, Maritina Tampakopoulos una Sacerdotessa dalla voce piena e dalla dizione chiara, che ispira nell'intervallo più commenti della protagonista eponima.
Alla fine, applausi, applausi, applausi. Oltre dieci minuti di piena soddisfazione per la festa di questi primi cento anni di opera allo Sferisterio, per un'Aida con qualche umano limite, certo, ma con il pregio della coerenza, della cura affettuosa e condivisa, dell'attenzione al testo senza fronzoli.