Fermata al Mar Rosso
di Roberta Pedrotti
Delude lo spettacolo d'apertura del Rossini Opera Festival 2021, presentato in anteprima il 6 agosto. La nuova produzione di Moïse et Pharaon a cura di Pierluigi Pizzi risulta povera di idee e debole nella realizzazione, né la sostiene la concertazione poco incisiva di Giacomo Sagripanti. Qualche soddisfazione in più viene dalla compagnia di canto.
Pesaro, Il signor Bruschino, 07/08/2021
PESARO, 6 agosto 2021 - È la seconda – e speriamo ultima, se tutti faranno la loro parte – estate in cui i festival devono fare i conti con distanziamenti, capienze ridotte, spazi reinventati. È il secondo anno che anche la ritualità delle prime solenni viene sovvertita e se il Rossini Opera Festival torna al calendario tradizionale (tre opere a cui si aggiungono Il viaggio a Reims dell'Accademia e una serie di concerti, tutto nei teatri al chiuso), l'inaugurazione si stempera e si sdoppia, le prime si fanno meno mondane, con giornalisti, addetti ai lavori e qualche ospite a concentrarsi su tre anteprime che, oramai, acquisiscono la fisionomia di recite vere e proprie e non di prove aperte.
Dunque, il pubblico arriverà ufficialmente al Rof dal 9 agosto, anche con le consuete dirette radio, ma Moïse et Pharaon si è presentato alla critica già qualche giorno prima. Meno formalità ed eguale sostanza, per una serata che intreccia coincidenze impreviste. Questo Moïse, infatti, doveva andare in scena un anno fa ed è stato rimandato per ovvie ragioni, finendo a coincidere con l'apertura del festival doverosamente dedicato a sir Graham Vick dopo la tragica, prematura scomparsa. E Vick, a Pesaro, aveva firmato ancora quarantatreenne, nel 1997, proprio con Moïse un capolavoro grandioso, sostenuto pure dall'epifania di un Vladimir Jurowski venticinquenne. Ora, dopo quasi cinque lustri, non si vorrebbe porre il confronto, non dovrebbe aver senso fra visioni diametralmente opposte che potrebbero avere entrambe egual diritto di cittadinanza nel cosmo dell'interpretazione di un'opera, specie in un festival. Ricordiamo e guardiamo avanti, proprio come ci hanno insegnato quegli spettacoli memoriabili e avanti, molto avanti guardavano.
Il problema è che questo nuovo Moïse firmato da Pierluigi Pizzi e Giacomo Sagripanti ha davvero poco da dire in assoluto e troppi, troppi problemi alla radice.
Pizzi resta un ragazzino classe 1930, attivo, vivace, energico. Non scordiamo il suo recente e bellissimo Barbiere di Siviglia, testimonianza che, più ancora dell'opera seria a cui tanto si è dedicato, nella commedia abbia spesso trovato, anche con autoironia, le sue migliori espressioni registiche (citiamo almeno Un giorno di regno, Il cappello di paglia di Firenze, Le nozze di Teti e di Peleo). Moïse, invece, gli resta estraneo, come un grande concerto in cui non ci sia nulla da dire teatralmente. Nessun dramma, nessuna azione, nulla di nulla: il coro disposto ai lati che di tanto in tanto leva le mani al cielo o le muove graziosamente, i solisti ordinati in fila come nelle strette dei concertati di una volta. Finché tutti entrano, escono, si posizionano al posto giusto, non ci sono altre preoccupazioni relative alla recitazione, sicché capita al più qualche spontaneo braccino levato al cielo, mentre solo il Pharaon di Erwin Schrott si lascia andare – sua sponte, è chiaro – in gestualità, smorfie e mossette dall'effetto parodistico. Le coreografie di Gheorghe Iancu si incuneano avulse dal contesto, semmai pretesto per qualche esibizione fisica (francamente terribile il girotondo di giovanotti in piscina che nel primo atto voleva forse alludere a un rito battesimale). Nella sfilata di cliché da concerto in costume e di topoi pizziani ormai arcinoti da decenni, la scena iper minimalista punta su proiezioni francamente risibili, che fanno afflosciare proprio gli elementi spettacolari che dovrebbero essere fra i cardini della drammaturgia (le tenebre anticipate, la brutta pioggia di lapilli, l'animazione elementare della piramide che va avanti indietro, ruota, crolla...), con una stilizzazione in realtà didascalica e di nessun impatto. Già che si vuol sfruttare la tecnologia, si auspicherebbe un livello di elaborazione grafica maggiore perlomeno per illustrare a dovere tutti gli eventi sovrannaturali previsti dal testo.
A Pesaro già l'ultimo Ronconi (Pesaro, Armida, 10/08/2014) si perse nei suoi stessi stereotipi; Pizzi non s'invischia in vicoli ciechi concettuali, ma si ferma a un suo generico marchio estetico rinunciando non solo a un'interpretazione, ma anche a qualsivoglia evidenza narrativa. Basti citare il finale terzo, in cui il coro, sempre fermo e ordinato ai lati, è tutto d'egiziani e della violenza e della reazione nell'esilio ordinato dal Faraone non c'è traccia.
Nondimeno, alla concertazione di Giacomo Sagripanti manca il respiro drammaturgico, il senso dell'ampiezza del grand opéra biblico e delle tensioni dei singoli. Si parla di popoli, di dei, di genitori e figli, amanti divisi da etnia classe e religione, non solo d'infilare note belle e fitte. Proprio a Pesaro, dal 1980, ci si propone di affermare la forza teatrale del linguaggio rossiniano e delle sue peculiarità, ma in questo caso non abbiamo sentito l'ambiguità dell'aria di Sinaïde, madre, regina, ebrea rinnegata ma solidale, che esprime il suo amore per il figlio auspicando che questi rinunci ai suoi sentimenti per la ragion di stato (ed è tanto più un peccato perché Vasilisa Berzhanskaya, trionfatrice della serata, sciorina un notevolissimo campionario di strumenti vocali, fra pianissimi, legati, acuti, fioriture che restano, però, esibiti fini a se stessi). Non abbiamo nemmeno sentito quel filo di tenerezza e pudore che dovrebbe percorrere il duetto fra Aménophis e Pharaon, duetto in cui compaiono elementi usati da Rossini anche in contesto buffo, ma che la consapevolezza del linguaggio dovrebbe declinare con ben altro partito.
Sagripanti sa di poter contare su un'orchestra ottima qual è quella della Rai, che difatti sostiene con bel suono e virtù tecniche la serata praticamente senza intoppi, ma proprio perché lo strumento è eccellente si sarebbe potuto ricercare qualche piano in più, si sarebbe potuto avere il coraggio di abbandonarsi all'ampiezza estatica dei concertati (“Ô toi dont la clémence” e “Je tremble e soupire” risultano quasi sbrigativi) per poi valorizzare meglio le tensioni più incalzanti, dove, ancora, sembra prevalere una prudenza che morde troppo il freno e non scava nel dramma, nella dimensione collettiva e individuale, nella dialettica delle forme musicali così ben concatenate da Rossini. Insomma, come Pizzi si affida alle impeccabili geometrie dell'impianto scenico e dei drappeggi dei costumi, così Sagripanti punta senza rischiare sulla qualità dei suoi complessi (bene anche il coro del Teatro Ventidio Basso preparato da Giovanni Farina) e dei solisti per consegnare un compito senz'altro corretto e non privo di pregi, ma ben lungi dall'autentica dimensione del capolavoro rossiniano.
Abbiamo detto, infatti, del successo e delle qualità di Berzhanskaya. Il discorso si può ripetere con qualche distinguo per l'Anaï di Eleonora Buratto: proprio per il suo non essere, a differenza della collega russa, una belcantista specializzata, desta ammirazione sentire una tale cura e dedizione el canto di agilità da parte di chi poco più di un mese fa cantava Aida all'Arena. La voce è morbida, ben appoggiata, l'espressione sincera. Con lei, si apprezza tutto il versante ebraico, a partire naturalmente dal Moïse di Roberto Tagliavini: canto nobile, timbro prezioso, ispirata dignità che solo avrebbe meritato altra valorizzazione da podio e regia. Monica Bacelli fa di Marie un raffinato cammeo e Alexey Tatarintsev desta interesse con il suo incisivo Éliézer. La famiglia reale egiziana, invece, patisce la definizione al limite del caricaturale già evidenziata in Schrott, che lascia ancor più l'amaro in bocca se si pensa alla qualità straordinaria della sua voce,tanto bella, ampia, facile ed estesa. Come Aménophis Andrew Owens mostra diversi problemi di tenuta e volume, da cui discende anche una resa davvero pallida del personaggio: il tempo potrà dirci se è stata solo una serata poco felice, che ci auguriamo possa esser presto superata. Matteo Roma come Aufide e Nicolò Donini come Osiride e Voix mistérieuse completano il cast.
Dopo quattro atti in cui si può sentire cantare e suonare bene, ma in cui di opera – intesa come teatro musicale, in cui abbiamo un'azione, in cui il suono corrisponde a una parola, un senso, a rapporti e psicologie – abbiamo molto poco, gli applausi arrivano, unanimi, per una buona decina di minuti. Possiamo unirci solidali al giusto tributo per l'impegno profuso sul palco e in buca, però Rossini, il grande Rossini questa sera ci è mancato, e non per sua colpa. Confidiamo di rifarci nei prossimi giorni.
foto Amati Bacciardi