L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

È strano…

di Luca Fialdini

Non mancano perplessità intorno alla nuova produzione della Traviata al Teatro Verdi di Pisa - non ultima la scelta di programmare una sola recita - ma, nonostante qualche inciampo, si apprezzano anche buone voci nel cast.

PISA, 12 settembre 2021 – Per la prima volta dal febbraio 2020 il Teatro Verdi di Pisa torna ad essere casa della lirica per un’apertura di stagione decisamente in anticipo rispetto alla norma. Altro aspetto fuori dal cerimoniale del Verdi - e di molti altri teatri - è che la recita non è stata preceduta da alcuna presentazione e, curiosamente, la casa della lirica è aperta per una sola serata: La traviata di Giuseppe Verdi conoscerà una singola recita senza repliche, esattamente come gli altri due titoli della trilogia verdiana (annunciati come uno «sforzo produttivo senza precedenti»). Negli ultimi anni il Teatro di Pisa ha conosciuto un incremento importante del pubblico - sia dagli abbonamenti sia dallo sbigliettamento - tale da rendere non sufficienti le canoniche due recite; se a questo aggiungiamo la capienza ridotta dovuta alle norme covid, il motivo per cui si sceglie di creare tre allestimenti che avranno una sola apparizione sul palco è decisamente oscuro. A riprova del fatto che esiste un solido legame tra il teatro e il suo pubblico va il fatto che i posti disponibili per la trilogia sono esauriti già da tempo.

Tornare nella sala grande del Verdi, con la sua tappezzeria amabilmente discutibile, è una sincera emozione, un po’ come quando si torna a casa dopo tanto tempo. La sala non è assolutamente gremita come in tempi normali, ma per quel che viene concesso i posti vacanti si contano sulle dita di una mano ed è palpabile la felicità di poter tornare a occupare il teatro di Andrea Scala.

A fare gli onori di casa Enrico Stinchelli, alla sua prima prova indoor nelle vesti di direttore artistico e regista. Inedita la decisione di prodursi in approfondimenti su opera e personaggi, affiancato da Sara Genovesi, prima delle alzate di sipario e nei cambi scena. Non è in discussione la preparazione o la cultura di Stinchelli, ma l’occasione. Se si voleva introdurre l’opera bastava organizzare la presentazione che non ha avuto luogo, senza rallentare lo spettacolo (Muti direbbe «l’opera è lunga»). Questi interventi non sono stati accolti né freddamente né tiepidamente da parte del pubblico, semplicemente non sono stati accolti: si attendeva in silenzio che l’opera potesse iniziare mentre in sala calava la sonnolenza.

Quando - finalmente - entra in buca il direttore Marco Guidarini e l’Orchestra Arché intona il Preludio atto I (ma soprattutto l’introduzione a "Dell’invito trascorsa è già l’ora") ci si rende conto di una cosa: a differenza della Tosca dello scorso agosto, l’orchestra a ranghi ridotti stavolta si sente. La sezione dei legni è troppo esigua, per non parlare di quella degli ottoni che è rappresentata solamente da due corni; rispetto all’originale lo scalino è troppo evidente. La colpa non è di certo dell’orchestra o del Teatro, le disposizioni sono nazionali quindi vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole; è altrettanto vero che nessuno impone che si debbano mettere in cartellone titoli che necessitano di essere riadattati così pesantemente in base alle caratteristiche del teatro che li ospita.

L’attesa regia di Stinchelli convince a metà. È palesemente il lavoro di una persona che ha visto molto e conosce la materia, ma mancano degli spunti originali. La cosa più interessante è forse la Morte fisicamente presente sulla scena e incarnata da Alice Bachi: sembra essere un richiamo tanto alla Traviata di Zeffirelli del 1982 quanto alla donna in nero dell’horror Insidous di James Wan, ma come idea funziona (specialmente la grande ombra che troneggia nel finale del primo atto), a esclusione del goffo epilogo. Quel che manca davvero è un quid caratterizzante. I costumi sono forniti dalla Sartoria Teatrale Fiorentina e dal Teatro stesso e sono sicuramente splendidi, ma tanto tradizionali da risultare quasi impersonali. Le videoproiezioni, di cui si è fatto un gran parlare, stavolta sono totalmente deludenti e a tratti fastidiose: gli anticipati «scorci pisani» in questo caso sono costituiti da una ripresa (pure a scatti e senza postproduzione) del foyer del teatro, il resto sono dei fondali - a volte foto, a volte immagini in CGI a bassa risoluzione - che invece di essere dipinti sono proiettati, talvolta con delle animazioni che disturbano enormemente la visione d’insieme. A pensar male verrebbe da dire che le videoproiezioni servano solo a far economie sulle scene. Il disegno luci di Angelo Sgalambro non è malvagio, ma fa rimpiangere quello di Michele Della Mea.

Si avverte anche incertezza tanto in buca quanto sul palco, ognuno paga lo scotto di una Traviata messa su in una settimana: a volte negli assiemi qualcuno chiude prima, oppure ci si prende un respiro di più in un momento solistico e allora il tempo inizia a sbandare, un corista accenna un attacco in anticipo. Non si tratta mai di cose che inficiano realmente l’esito della rappresentazione, sono semplicemente tante spie di una produzione avvenuta in fretta e furia. Poco equilibrata anche la direzione di Guidarini, dove si cerca il sanguigno a ogni costo e si guidano con lo stesso gesto il coro dell’introduzione e "Addio del passato". Due gli aspetti rimarchevoli: Guidarini non ha il pieno controllo di buca e palco ma cerca di seguire il corso degli eventi - ed ecco altri sbandamenti ritmici più o meno fastidiosi - eppure pretende anche di dirigere qualsiasi cosa, persino i recitativi, che vengono eseguiti quasi a metronomo. Il metronomo stesso è un tasto dolente perché, se in generale i tempi sono buoni, in alcuni frangenti si dimostrano un po’ troppo affrettati per i cantanti che sensibilmente si trovano in difficoltà nella dizione. Era sufficiente abbassare il tempo di un paio di tacche.

L’Orchestra Arché, pur mettendoci tutta la buona volontà, risulta al di sotto della media; ça va sans dire, la riduzione dell’organico ha un impatto importante sul risultato. Il Coro Arché è abbastanza in forma e lo dimostra specialmente nel secondo atto, ma non ha il consueto smalto. Buono il corpo di ballo e dei mimi danzatori con le coreografie di Daniela Maccari, efficace nelle due grandi feste ma abbastanza fuori luogo nella prima parte del secondo atto e nel terzo: avere a disposizione un corpo di ballo non significa fargli fare qualcosa per forza. Come nelle scelte di scenografia e costumi, bisogna cercare un equilibrio e togliere piuttosto che aggiungere, forse per un senso di horror vacui.

Il livello del cast - eminentemente giovane - è una piacevole sorpresa, a parte uno o due casi tutti si dimostrano all’altezza del ruolo cominciando dai comprimari: Levan Makaridze è un buon dottor Grevnil, così come Michelangelo Ferri è un solido Marchese d’Obigny. Emil Abdullaiev nei panni del barone Douphol dimostra uno strumento potente ma impastato, viceversa è ben centrato il Gastone di Carlo Enrico Confalonieri.

Francesca Maionchi è una buona Annina, un bel timbro unito a una presenza scenica discreta ed elegante; da migliorare la dizione quando la parte si sposta nel registro acuto e le parole diventano poco compensibili.

Il tenore Emanuele D’Aguanno veste in modo rispettabile i panni del protagonista maschile: la voce non è eccezionale e in alcuni punti è quasi coperta dall’orchestra, ma l’intenzione è buona e rivela sfumature interessanti.

Ottimo Badral Chuluunbaatar, baritono oriundo dalla Mongolia che sostiene il ruolo di Giorgio Germont. L’imponenza scenica, il carisma e la buona recitazione fanno dubitare della giovane età: Chuluunbaatar ha saputo imporsi e conquistare il pubblico con grande intelligenza e controllo della vocalità, perfettamente in equilibrio con gli intensi patetismi.

La giovanissima Eleonora De Prez è una splendida Flora Bervoix, dotata di un timbro chiaro e omogeneo e una dizione impeccabile. Ci si dispiace che abbia un personaggio piuttosto limitato, meriterebbe di essere ascoltata in ruoli più estesi, anche in virtù dell’ottima recitazione e della capacità di caratterizzare in pochi tratti la sua Flora. Altrettanto giovane e meritevole di interesse Irene Celle, interprete del ruolo del titolo. Violetta, si sa, pone numerose difficoltà ai soprani (è celebre il discorso delle tre Violette); la Celle riesce però a dominare il ruolo apparentemente senza alcuna difficoltà. La vocalità slanciata e argentea unita a una buona sicurezza anche nelle regioni più acute del registro le consentono padronanza di ogni momento del melodramma; non da meno la capacità di introspezione, assolutamente ben riuscita e convincente. Di singolare riuscita anche il mi bemolle al termine di "Sempre libera": il modo in cui la Celle ha saputo prendere l’acuto, leggero e cristallino, rappresenta in nuce la sua cifra stilistica.

Tanti applausi (e anche qualche dissenso) al termine della rappresentazione per orchestra, ballerini, orchestra, coro, direttore e cast. Per tutti, insomma, tranne che per il direttore artistico/regista Stinchelli che non si è presentato sul palco.

Non è lecito fare previsioni sul futuro, ma se le premesse sono queste era senz’altro meglio concentrarsi su un’unica produzione con repliche e soprattutto curata meglio, soprattutto se si considera che l’ultimo Trovatore è del 2018 e l’ultimo Rigoletto del 2016. La traviata mancava da quasi dieci anni, molto meglio concentrarsi su questa che produrre inutili doppioni.


 

 

 
 
 

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